Bohemian Rhapsody o Ritorno al Futuro? Recensione del film tv con Freddie Mercury
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Rapsodia, dal vocabolario Treccani: “In musica, composizione strumentale, spesso solistica, nella quale più temi, quasi sempre di origine popolare, vengono svolti in varie interpretazioni succedentisi in forma libera, investite di significati epici o di esaltazione etnica e nazionale, o destinate a valorizzare un qualche virtuosismo strumentale: i più noti esempî si hanno nella produzione pianistica del romanticismo”.
“Oh mama mia mama mia, mama mia let me go”
Avete presente lo spot del Gratta&Vinci “Ti piace vincere facile?” con Robinson Crusoe che giocava a mosca cieca sull’isola deserta insieme a Venerdì, un gruppo di medici e infermieri in sala operatoria con l’Allegro Chirurgo, o una squadra di calcio composta da 200 persone contro 11 avversari? E poi la musichetta “ponci ponci po po po”…?
Rapsodico ed erratico Bohemian Rhapsody ingoia la breve e intensa esistenza del suo protagonista, ma evidentemente era un boccone troppo grosso e si strozza.
Bohemian Rhapsody vuole vincere facile affondando le mani nella musica, nella vita, nelle miserie e nella carismatica personalità di Freddie Mercury, cantante, poeta, uno che scopava tutto quello che gli capitava a tiro, perfino i camionisti del Midwest amerigano, beveva, ruttava, sniffava di tutto, dalla calce dei muri fino al sudore di David Bowie, l’unica cosa che non si si poteva dire era che fosse un magnone. Così, emaciato e magrolino, una roba tipo Giovanni Allevi ma con la canotta, Freddie Mercury cresce a Londra con quattro incisivi di troppo in bocca, pronti per mordere la vita. Mesci tutto – siamo già brilli, o no? – con gli inni da stadio più trascinanti degli ultimi 40 anni, e boom!, difficile che Bohemian Rhapsody non prenda alla bocca dello stomaco soprattutto chi con quelle note è cresciuto, gli over 40enni in crisi di nostalgia per la musica che ascoltavano quando avevano 18 anni, malgrado i problemi produttivi (cambi di sceneggiatori e registi), la difficoltà a trovare un protagonista/front man (prima Sacha Baron Cohen, poi Ben Whishaw e infine Rami Malek) e soprattutto un Bryan Singer in versione Taribo West che sparisce dal set e nessuno sa dove si sia cacciato.
Sarebbe potuto essere un film su un immigrato di Zanzibar di origini parsi, fuggito con la famiglia dalle persecuzioni, trattato come un reietto nella cosmopolita Londra, costretto a lanciare bagagli all’aeroporto di Heathrow, spregiativamente chiamato “paki”, pakistano; sarebbe potuto essere l’esemplare resoconto di un escluso che sfonda e conquista il mondo con alle spalle difficili rapporti familiari e un padre tradizionalista; sarebbe potuto essere la storia di una rockstar omosessuale costretta a nascondere la propria natura prima a se stesso, poi al mondo e, infine, è colpito dal male del secolo; sarebbe potuta essere la rappresentazione della reazione chimica che si crea in uno studio di registrazione tra personalità artistiche che faticosamente percorrono insieme la strada della creazione; sarebbe potuto essere il racconto degli eccessi, tra droga, nani, sesso sfrenato e pantaloni troppo attillati – palliativi per addolcire la solitudine; sarebbe potuta essere la storia di un cantante che si chiedeva Who Wants To Live Forever? ma che, giunto alla fine dei suoi giorni, cantò The Show Must Go On, ma invece…
Is this the real life? Is this just fantasy? Caught in a landslide, No escape from reality.
Invece, Anthony McCarten, con alle spalle buoni biopic come L’Ora Più Buia e La Teoria del Tutto (beh, forse non tanto buoni), e il regista Bryan Singer (uno che negli ultimi anni si fa notare più per i licenziamenti che per i buoni titoli girati) si limitano ad accennare, a mostrare senza aggiungere significati, senza mai sporcasi le mani, girando un film tv, smontando e ricomponendo la vita di Mercury a loro compiacimento fino alla catarsi conclusiva. Il conflitto genitori-figli? Un paio di discussioni a tavola e qualche vestito con paillettes e lustrini sfoggiato come aperta provocazione. Disagio sociale? Sì, vabbè, ora chiedo a due sfigati fuori a un locale di entrare nella loro band e sparo hit come se non ci fosse un domani, scritte seduto alla fermata dell’autobus che fa tanto bohemien 2.0. La questione omosessuale? Un paio di sguardi lussuriosi e un rapporto complesso, ma mai approfondito, con Mary Austin (la bellissima Lucy Boynton): “Lei crede in me” e abbiamo risolto tutto. Le sessione di registrazione dei brani dei Queen più famosi? Una sequela di curiosità e aneddoti, su Brian May che arriva in studio con un’idea strepitosa che diventerà We Will Rock You o John Deacon che inventa il giro di basso che sarà Another One Bites The Dust o la voglia di Mercury di fare qualcosa di mai sentito prima per il brano che dà il titolo al lungometraggio.
Ma del resto, è pensabile che un biopic, prodotto e realizzato insieme con gli stessi soggetti che vuole rappresentare, possa dire qualcosa in più, qualcosa di scomodo, qualcosa di vero e non diventare autoindulgente, autoassolutorio e vanamente incensante?

Una delle vittorie di Rami Malek nascosto sotto i baffi e troppi denti è recitare frasi ormai consunte (“voglio fare colpo tesoro” oppure “voglio diventare il più grande performer del mondo”) come se mai nessun altro prima di lui, al cinema o in televisione, le avesse mai pronunciate. Ed è qui che l’interpretazione è convincente, non certo nella mera ripetizione o imitazione di passi e gesti. Il buon Malek fa dimenticare l’imitazione del tizio interpretato da Dustin Hoffman in Papillon e sfoggia eccessi, ma anche un minimalismo che gli abbiamo riconosciuto e ammirato anche in Mr. Robot. Riesce, con una fisicità altamente espressiva, a restituire Freddie Mercury non solo nella gestualità sul palco, ma anche nelle piccole incertezze nel rapportarsi con se stesso, la sua sessualità, gli amici, gli amanti.
Siamo quattro emarginati male assortiti che suonano per altri emarginati. (Freddie Mercury/Rami Malek in Bohemian Rhapsody
In Bohemian Rhapsody tutto e tutti sembrano condannati a “mordere la polvere”, compresa un’inventiva senza precedenti nel rielaborare la tempistica dei fatti realmente accaduti (ne dico solo una: i Queen non si sciolsero mai e, prima del Live Aid, avevano concluso da pochi mesi il tour per la promozione dell’album The Works, mentre nella ricostruzione fatta sembra che non suonassero insieme da anni), al fine di trarre una sorta di lezione morale – evidente insicurezza di chi ha sceneggiato, incapace di trarre qualcosa di buono da un’esistenza che sarebbe bastato raccontare così come si è svolta.
Bohemian Rhapsody è salvato dai momenti musicali da brividi e dalla riproposizione della sequenza del Live Aid, dove la potenza della musica si sposa con il carisma di Freddie/Malek e il sognante trasporto della massa umana di Wembley, dove Singer (o chi per lui) non esista ad entrare, al fine di cercare i volti pieni di emozione di chi visse quel pezzo di storia del pop. Oggi che anche Freddie è consegnato agli annali e riposa tra i grandissimi, resta il ricordo di lui e un film che purtroppo non è riuscito a restituircelo per intero.
** Ragazzi, state commettendo un grosso sbaglio.
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Sarà che per me è prevalso il richiamo alla bocca dello stomaco, come lo hai efficacemente chiamato, ma io pur avendogli trovato non pochi difetti, tra cui alcuni di quelli che hai rilevato tu, non posso non ammettere di essere uscito dal cinema con la pelle d’oca, che mi è rimasta lì bloccata per qualche ora… merito delle canzoni, ovviamente, ma anche di una messinscena piuttosto accurata che ha saputo proporle al momento giusto…
Che poi tra vedere questo film e vedere il dvd del live at Wembley 85 non si possa che scegliere quest’ultimo, su questo direi che non ci piove…
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Concordo in larga parte ma ti chiedo:esiste un modo per raccontare degnamente una persona del genere? Senza ritornare sulla questione della necessità di questo genere di film, se proprio bisogna farli forse è meglio che sia controllato da chi c’era e ci tiene, piuttosto che vedere nani cocaina e sesso come se fosse quella la parte importante della storia.
Sono film (pensa anche a Nowhere Boy) facilissimi da sbagliare, in cui è necessario inserire incongruenze e invenzioni perchè la vita vera non funziona in tre atti mentre i film hanno le loro regole.
Apprezzo molto di più un “I’m not there”, che almeno prova a ispirare e raccontare la complessità di Dylan, come idea, però è anche un film noiosissimo mentre alla fine di questo piangevo, con tutti i limiti che ha.
Non solo Rami Malek bravissimo, anche gli altri tre. E le riprese dei concerti sono bellissime.
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La mia risposta è semplice: sì, basterebbe raccontarla così come si è svolta senza la necessità di inventare e staccare avvenimenti dal loro contesto e metterli in tutta un’altra sequenza temporale per creare drammaticità. Ma la vita di freddie mercury non offriva spunti narrativi migliori? Bo… per il resto sono d’accordo. Ho sacro rispetto di un film che diventerà record di incasso del 2018, ma la qualità del film è quella e dice molto di noi, di un nuovo modo di fare cinema e soprattutto del pubblico
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