Borg McEnroe, il film che ha vinto il RomaFF12: recensione, lungolinea rotante, volée diabolica!
Tempo di lettura: 2’24’’
Il cartello iniziale “Basato Su Fatti Realmente Accaduti” è vagamente inquietante, manco Borg McEnroe fosse un horror soprannaturale ispirato al Poltergeist di Enfield o agli orridi tic di Rafa Nadal… Aggiustata alla mutande, spalla sinistra, naso, spalla destra, orecchio sinistro, naso, orecchio destro… Invece, è un confronto sportivo che ha fatto epoca, segnando la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta. Bjorn Borg era l’algido svedese numero 1 del mondo, John McEnroe l’effervescente monello statunitense al numero 2. Alla vigilia del torneo di Wimbledon del 1980, Borg puntava a vincere il quinto trofeo consecutivo sull’erba londinese, un record assoluto nel tempio del tennis mondiale, e l’unico che poteva mettergli il bastone tra le ruote era lo sboccato newyorchese.
Due campioni e due uomini apparentemente agli antipodi, ma Borg McEnroe di Janus Metz Pedersen indaga nella profondità dell’animo di entrambi per sovvertire la narrazione dell’epoca. Dietro l’apparenza, i due erano alimentati dallo stesso fuoco: la voglia di vincere a ogni costo, l’impossibilità di essere imperfetti.
Dietro il racconto della finale di Wimbledon 1980 si rivela un mondo. Come recita un altro cartello a inizio film, tratto da Open, l’autobiografia di Andre Agassi – grandissimo campione ed ex numero uno del mondo -, “Ogni partita di tennis è una vita in miniatura”, invece Janus Metz Pedersen ne regala due, narrando a ritroso come i campioni sono arrivati al momento definitivo, a giocare uno degli incontri di tennis più importanti del secolo scorso, dalla nascita di Borg-L’Imperatore, gli inizi segnati dalla rabbia fino all’affermazione, fino al McEnroe Superbrat. Due facce della stessa medaglia, alimentata da quelle emozioni, ma se lo svedese le ha seppellite e concentrate per trasformarle in forza motrice e nella eccezionale capacità di concentrazione, l’americano se ne nutre per sbranare i suoi avversari, incredibilmente capace di mantenere acceso il suo fuoco grazie alle urla contro i giudici o gli insulti al pubblico che lo fischiava.
Il tennis non è adatto a tutti i ceti sociali.
Dei due campioni vediamo tutto: i difficili rapporti con la famiglia, Borg è stato cresciuto dal capitano della squadra di Coppa Davis svedese, McEnroe è abbandonato in giro per il mondo da un padre che non riesce a staccarsi dal lavoro neanche mentre gioca a scacchi con lui il giorno prima della super finale di Wimbledon; le esigenze contrattuali, anticipazione degli atleti-azienda dei nostri giorni; le pulsioni suicide di Borg (che poi si rivelarono in seguito); i demoni e le insicurezze di McEnroe; le pressioni dei media e soprattutto le aspettative personali, le ambizioni, l’inconcepibile accettazione della sconfitta. Certo, Eisenhover aveva più pressioni quando doveva liberare il mondo del Nazismo.
Devi promettermi che non penserai più a un cazzo di niente, metterai le emozioni dentro ogni punto, un punto alla volta.
Raramente il cinema è riuscito a entrare così in profondità nei dubbi, nelle insicurezze, nelle paure e nel cuore dello sportivo professionista come Borg McEnroe, grazie alle intense interpretazioni di Sverrir Gudnason e Shia LaBeouf, inquadrando anche il gesto più naturale e diffuso del mondo: un McEnroe bambino che guarda il poster di Borg e ne imita le pose. In fondo, è la vera forza che alimenta il mito degli sportivi, il desiderio di imitarli su un campo delimitato da quattro righe.
****½ Fa un po’ di tutto, anche se tutto quello che fa è bello ma inutile, un po’ come la matematica pura: magari non serve, ma è sublime.
Categorie