The Greatest Showman: ballo, ballo, ballo da capogiro
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Fin dal primo numero musicale The Greatest Showman promette lo “show più grande” e mantiene la promessa, una roba che Fantastico 3 con Gigi Sabani, Renato Zero e Raffaella Carrà che canta “pazza, pazza, pazza su una terrazza” era una fiera paesana. Prego, Enzo Trapani, mandi il contributo. In effetti, The Greatest Showman è uno “spettacolo spettacolare”. Colori, suoni, scenografie e costumi, soprattutto canzoni che rimangono in testa ben oltre la fine dello spettacolo, scritte dai nuovi fenomeni di Broadway (e di Hollywood) Benj Pasek e Justin Paul che nel 2017 hanno vinto l’Oscar e il Golden Globe per City Of Stars di La La Land e il Tony Awards per il Miglior Musical per Dear Evan Hansen e con This is Me hanno vinto il Golden Globe anche per questo film.
PT Barnum (Hugh Jackman) è il figlio di un sarto in un’America rigida nelle convenzioni e nelle classi sociali come l’Inghilterra di Jane Austen. Grazie alla sua intraprendenza sposerà la figlia dell’altezzoso cliente del padre (Charity interpretata da Michelle Williams) e, dopo l’ennesimo licenziamento, si lancerà in una nuova avventura: un museo delle cere sulla falsariga del Madame Tussauds che, dopo i primi insuccessi, diventerà uno spettacolo con elefanti, donne barbute, l’uomo più pesante e il più alto del mondo, una coppia di trapezisti di colore, tutto amplificato da un grande battage pubblicitario. Questo è The Greatest Showman. Circa la vera storia di colui che si definì «il principe dei farabutti» probabilmente c’è poco. Manca un approfondimento della sua battaglia contro la schiavitù, ad esempio. Di un uomo il cui nome ancora oggi è sinonimo di grande confusione, che ha inventato il circo moderno e in sostanza lo show business, è rispettato lo spirito perché il film che lo racconta si preoccupa poco dell’accuratezza e privilegia uno sfrenato caos circense.
Scritto delle canzoni, le coreografie sfidano la forza di gravità e la fisica; stupisce Zendaya e il suo numero tra canto e trapezio insieme a Zac Efron; colpiscono lo stesso Efron e Hugh Jackman (cinquantenne chiamato a interpretare il 25enne Barnum) che si lanciano bottiglie e bicchieri che si riempiono e svuotano velocemente tra salti su sedie e tavoli. Sebbene fosse un progetto che Jackman coltivasse da anni e che lo riportava alle sue radici teatrali, tra canto e ballo e senza lame di adamantio, Hugh ha lasciato che ogni membro del cast – i già citati Zendaya e Efron, Michelle Wlliams, Keala Settle e Rebecca Ferguson (quest’ultima con la voce “prestata” dalla vincitrice di The Voice USA Loren Allred, mistificazione che Barnum avrebbe amato) – vivesse un intenso momento di gloria e un pezzo di scena stupefacente in cui esaltarsi.
Il tema dell’uguaglianza e il rispetto aspira a essere il cuore di The Greatest Showman: Barnum accoglie i freaks, i diversi, gli esclusi, tutti coloro che la società non accetta, li mette sotto la luce dei riflettori nel suo circo. I brani composti da Benj Pasek e Justin Paul interpretano la spinta egualitaria che, alla prova dei fatti, resta una dichiarazione di principio. Alla sua prima prova alla regia Michael Gracey privilegia la spettacolarità, ma dimentica di raccontare chi fossero i freaks, le loro storie, lo sviluppo dei personaggi, non aiutato dalla sceneggiatura di Jenny Bricks e Bill Condon; sebbene i freaks cantino “This is me”, non conosciamo niente su nessuno di loro, se non le “anormalità” fisiche; solo Barnum ha una propria evoluzione, assieme al socio Carlyle: ottiene il successo non giudicando dalle apparenze ma le potenzialità che le persone possono esprimere se qualcuno crede in loro, crea uno spazio espressivo per gli esclusi, ma poi li dimentica e con loro i suoi sogni e la sua famiglia, ammaliato dall’usignolo svedese Jenny Lind (Rebecca Ferguson) che porta in tournée in tutti gli USA. Poi il risveglio, la perdita del sogno, la catarsi tra le fiamme e la definitiva redenzione. Un canovaccio molto classico, quasi da favola disneyana, che sostiene a malapena due ore di numeri che da soli bastano a combattere la noia. De resto, come disse il nostro eroe “l’arte più nobile consistere nel far ridere gli altri”. E forse è anche la più difficile.
***½ Non hai mai sentito nominare il Millenium Falcon?
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sì, diciamo che si poteva fare di più dal punto di vista biografico-sociale, ma avendo scelto la strada del musical non era neanche poi così facile…
hanno privilegiato l’aspetto entertainment, e ci poteva stare… nel senso che il soggetto si prestava bene…
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Vero, però a chiamarlo biografia gli si fa un favore
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assolutamente, ma infatti guai a chi lo categorizza come biopic… musical e stop…
intendevo che per farlo diventare più biografico-sociale bisognava forse andare su un altro tipo di film (non musical)…
e comunque al “pazza pazza pazza” stavo dando il giro sulla sedia 😀
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Ahahahahah. Ho letto un po’ di articoli su Barnun e in effetti ne ha fatti di impicci. Nel film sembra sia stato tutto un complotto, ma da quanto ho capito non è così
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