Memorie di un assassino, recensione
Un omicidio, poi un altro, la certezza di un serial killer. Corea del Sud, gli anni del regime, in una povera regione di una nazione che vive la dittatura, poliziotti impreparati affrontano un nemico invisibile e inesorabile. Arriva anche un super detective da Seoul. Le indagini proseguono tra interrogatori a forza di calci e pugni, prove fabbricate con indifferenza per dimostrare una tesi, un pregiudizio, “per scoprire un assassino mi basta guardarlo negli occhi”. Ma presto il protagonista scoprirà che negli occhi dell’altro c’è solo un buio infinito e indifferente, c’è solo quello che vogliamo o crediamo di vedere.
Se c’è un merito nello straordinario successo di Parasite, è di aver consentito il recupero di questo capolavoro del 2003 di Bong Joon-ho, Memorie di un assassino.
Gli assassinii proseguono e anche le indagini, a volte tragiche, altre comiche, in un miscuglio di dramma e farsa che spiazza, ma cosa c’è di più vero e insensato e così profondamente vero di una risata strappata dentro una tragedia?

Poliziotti sciocchi e incapaci continuano a collezionare sospettati, andando a scavare tra i disperati: persone con handicap, pervertiti, uomini ai margini o che vivono ancora con la madre, individui accusati degli omicidi più efferati solo perché hanno le mani morbide, indagini in sauna cercando qualcuno senza peli pubici.
L’assassino continua il suo piano, senza pace, il regime reprime nella violenza le proteste dell’opposizione e quella violenza politica entra così nel profondo nel corpo della nazione che l’ha assimilata, interiorizzata e tutto sembra normale, come il volto che una bombetta vede, anni dopo, sul luogo del ritrovamento di uno dei cadaveri: un volto comune, normale, come quello di un assassino.
Memorie di un assassino di Bong Joon-ho è davvero uno di quei film importanti, destinati a restare per sempre.
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