Dune di Denis Villeneuve, recensione
Dune è il con cui ufficialmente Denis Villeneuve si conferma il costruttore di mondi per antonomasia di questo scorcio di XXI secolo.
Lo stupore che suscita la visione di Dune è qualcosa che il vostro affezionatissimo recensore fa fatica ad esprimere. Sono 155 minuti di eloquenza visiva, di magnificenza nei campi lunghi descrittivi, che rivelano i mondi in cui principalmente si svolge la storia – Arrakis e Caladan -, le affascinanti navi a forma di sasso che ricordano quelle di Arrival fino alle sequenze in interni che risentono tanto del lavoro fatto in Blade Runner 2049 in cui gli spazi riverberano potere, intensità ma soprattutto un algido e aristocratico distacco.
Di cosa parla Dune? Nell’anno 10190 l’imperatore toglie i diritti di concessione per l’estrazione della Spezia alla casata degli Harkonnen, per concederli agli Atreides. I primi sono bestiali e dipendenti dal profitto, un po’ dei Lannister incrociati con i Dothraki. Gli Atreides sono attaccati ai valori della tradizione e del rispetto della vita. Un po’ come gli Stark. Ma cosa è la Spezia? È la materia prima più preziosa dell’universo… un po’ il nostro petrolio o il litio per la cultura occidentale in perenne crisi depressiva. La Spezia consente i viaggi intergalattici e allunga la vita, i diritti di estrazione e distribuzione garantiscono alla casata che li possiede una ricchezza enorme.
In verità, l’imperatore vuole tendere una trappola agli Atreides, che stanno accrescendo il loro potere e ne minacciano l’autorità. Lasciato il pianeta natale, il duca Leto Atreides e la sua corte si stabiliscono su Arrakis, dove gli Harkonnen e l’imperatore pianificano una trappola.
Il livello geopolitico e la lotta per il potere si intreccia con la storia del giovane erede della casa Atreides, Paul, ossessionato da ricorrenti sogni su una giovane donna, Chani, interpretata da Zendaya; Paul non ride mai e verrebbe voglia di prenderlo per le sue esile spalle, scuoterlo forte e urlargli in faccia “cazzo ridi, hai sognato Zendaya”. Il giovane scoprirà che la ragazza fa parte dei Fremen, antica tribù guerriera di Arrakis e che la sua storia e quella di Chani si intrecceranno sulle sabbie del pianeta. Da parte di madre, Paul ha ereditato i poteri delle Bene Gesserit, ordine religioso matriarcale, composto da donne capaci di preveggenza e controllo mentale, da sempre al fianco dell’imperatore e dei signori della galassia nell’esercizio del potere. Da secoli le Bene Gesserit incrociano le linee genetiche di razze e stirpi per cercare di trovare il Kwisatz Haderach, il messia il cui destino è sconfiggere l’imperatore e condurre l’umanità verso una nuova era grazie ai suoi poteri.
Non avendo letto i libri e nemmeno visto il tentativo di Lynch del 1984, guardare Dune rivela al Vostro Affezionatissimo Scrivano quanto la fantascienza degli ultimi 50 debba ai mondi descritti da Herbert, soprattutto Lucas e Guerre Stellari. Questo mondo rimaneggiato a destra e a manca, sopra e sotto, Villeneuve lo mette in scena con la maestosità e l’eloquenza della Bibbia. Tra i riferimenti cinematografici di Dune ci sono anche Ben Hur e Lawrence d’Arabia, l’approccio è quello del kolossal, per la grandiosità che si respira in ogni singolo fotogramma, ogni immagine è lo sforzo di creare un mondo e lasciare dei segni, delle tracce ed esprimere un linguaggio che possa condurci anche oltre ad esso. Basti pensare ai rimandi al nostro tempo: la scultura del torero nelle stanze del Duca Leto Atreides, o la cornamusa con un suonatore in abiti tradizionali scozzesi che annuncia il duca di fronte alle sue truppe. Due dettagli che mi hanno fatto sentire molto vicino la storia della casata. Su quei due dettagli mi sono immaginato una storia di colonizzatori scozzesi in fissa con la tauromachia che abbandonano la Terra per un nuovo mondo, scavare la nuda roccia di un pianeta lontano. Io vorrei un film sulla storia dei primi viaggi interstellari degli Atreides.
Il cast è assolutamente all’altezza di tanta potenza visiva. Molto bene il giovane Paul, interpretato da Timothée Chamalet, un eletto riluttante e nei suoi dubbi quasi di essere colui che riporterà “ordine nella galassia” anche noi spettatori, per un attimo, pensiamo “ehi, forse non finirà come al solito con l’eletto che diventa l’eletto”; benissimo l’algida Rebecca Ferguson; il villain, il barone Harkonnen è affidato a uno Stellan Skarsgard che ha percorso fino in fondo il cammino dentro il cuore di tenebra di Dune e ha trasformato il suo barone in un colonnello Kurtz intergalattico di Marlonbrandiana memoria. C’è Oscar Isaac e la sua barba, una barba che ha una vita propria, una barba in cui vivere e che potrebbe rendere felici molte persone. Forse Zendaya è stata un po’ penalizzata in un film in cui è solamente evocata e sognata, ritratta per lo più in scene che sembrano la pubblicità di un profumo “Desert worm” eau de toilette by Hugo Boss ma so belle uguali e ci stanno.
Eh sì, ci sono anche i vermi del deserto. Enormi vermi del deserto che fagocitano tutto, lunghi anche 400 metri e che sono attirati dai suoni regolari e ritmati. L’unico modo per evitarli è muoversi in maniera irregolare, come hanno imparato i Fremen nei millenni. Così anche Villeneuve, per non essere fagocitato dal verme del cinema superomistico, dai blockbuster fatti con lo stampino, ha scelto un ritmo atipico, un film irregolare che è un lungo prologo (in apertura scopriamo il titolo che è Dune – Part One), ha una scena madre di azione altamente spettacolare a metà e poi riprende il tono narrativo ed esplorativo fino alla fine, che rimanda al capitolo successivo.
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