La recensione di 1917: Orizzonti di gloria
Preparando questa indegna recensione, ho letto un po’ di robe su 1917, non tutte positive. Ho trovato il cinismo di chi ha criticato la scelta tecnica di girare tutto in piano sequenza (con tagli digitali… amiche che prodigiosamente non sfocate le foto nel bagno mentre perigliosamente scattate le vostre stories da social, ma pensate che Benedict Cumberbatch sia stato ad aspettare il protagonista in un buco sotto terra per un’ora e 40 minuti? Lui è Dottor Strange, si è presentato puntuale all’appuntamento grazie all’Occhio di Agamotto); il cinismo di chi lo ha definito un film senza emozioni in virtù della sua scelta stilistica, il cinico che lo ha etichettato come un videogame (Call of Duty: 1917 l’anno del piano sequenza).
Forse gli anni, o peggio i chilometri, mi hanno rammollito, ma dopo aver visto 1917 sono uscito dalla sala sfatto, in lacrime, incapace di capire se mi ero emozionato più per quello che avevo visto, la sorte di due soldati persi e in guerra in un territorio che assomiglia alla desolazione delle nostre anime, o per come era stato girato. E ora sto computando.
1917 si svolge durante la Prima guerra mondiale, è la storia di due soldati inglesi, Blake e Schofield, spediti verso le linee nemiche in una missione suicida: consegnare un messaggio che salverà 1600 commilitoni da un attacco che avrebbe significato morte sicura; attraverso una terra devastata dalla furia omicida dell’uomo, i due sono accerchiati da paesaggi fantasma abitati e divorati dai topi, ponti spezzati, fattorie sterilizzate, città prima sventrate e poi date alle fiamme. Muovendosi, prima nella zona di nessuno e poi nell’area abbandonata dal nemico, Sam Mendes apposta per loro un orrore nascosto, che li spia, li aspetta, potrebbe essere una pallottola o il caso fortuito, che trasforma un secchio pieno di latte in un nemico spietato, un incombente senso di morte in un mondo disabitato da ogni forma di umanità, come la terra, dove alberi di ciliegio in fiore sono abbattuti e le mucche uccise, per non lasciare possibilità al nemico di nutrirsi.

Il nostro avversario è il tempo, perché quella di Blake e Schofield è una gara ad arrivare prima, prima dell’alba, quando la morte truciderà 1600 uomini, tra cui il fratello di Blake. E questo viaggio di due ore che copre un arco temporale di poco meno di una giornata, noi lo viviamo con loro, li guardiamo in faccia mentre la cinepresa li precede o guardiamo loro le spalle quando li segue, entriamo in pozzanghere affogate di cadaveri, nelle rapide di un fiume infame, sentiamo i rami graffiarci le gambe, percepiamo il peso dell’equipaggiamento, i topi ci girano intorno e tutto sembra un maleficio, l’unica cosa che ha un valore è sopravvivere, malgrado tutto superare il filo spinato, scampare a un’esplosione, senza cedere all’assurdità del tutto, della guerra, della crudeltà dell’uomo.
1917 è un po’ Salvate il soldato Ryan, un po’ Dunkirk, un po’ Orizzonti di Gloria, un po’ Balla coi lupi e riempie di senso lo spazio vuoto tra due tribù che si combattono, che siano nazioni o l’ansia autodistruttiva che si annida dentro ogni essere umano, sta a noi deciderlo. E prendere le dovute contromisure.
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