Pirati dei Caraibi – La vendetta di Salazar e quel burlone di Capitan Jack Sparrow
Il ritorno di Capitan Jack Sparrow è come quello di un amico cazzone e spericolato che rivedi per una birra dopo che è stato a far bungee jumping in Thailandia. È un tipo divertente e stai bene in sua compagnia, anche se tu negli ultimi tre, quattro o quindici anni sei cresciuto e Jack continua a ripetere “Metti le scarpe basse”. Lui ti parla di rum, come recuperare un dopo sbornia o come sfuggire alle responsabilità, a te le responsabilità ti inseguono e anche un certo puzzo di morte se hai superato i quaranta. Ma questo è un altro discorso.
Il puzzo di morte c’è anche in Pirati dei Caraibi – La vendetta di Salazar. Da quando hanno ammazzato il commodoro Norrington non mi sono più ripreso, soprattutto non si è ripresa la serie che deve far dimenticare il pessimo Ai confini del mare, un film sui pirati in cui non si vedeva mai il mare, un galeone, un po’ d’acqua, giusto ius po’ le poppe di Penelope Cruz. Per riuscire nell’impresa, abbastanza semplice a dire il vero, Bruckheimer e la Disney affidano il film a due registi vichinghi e tirano fuori dal cilindro un capitano zombie che è morto e dannato per colpa di un giovane Jack Sparrow. Dalla presenza di Salazar (Javier Bardem) scopriamo che: ha la zeppola, che Sparrow è un soprannome che lui gli diede quando vide Jack appollaiato sull’albero maestro della sua nave il giorno del loro scontro (in Ai confini del mondo scopriamo che il padre Keith Richards si chiama Capitan Teague che quindi potrebbe essere il vero cognome del nostro eroe e qui invece che lo zio di Jack è Paul McCartney, sai che ninna nanne a casa Teague) e che Johnny Depp pischello ricreato digitalmente perde di colpo gli ettolitri di Tavernello ingollati nelle disperate nottate di Hollywood e gli acciacchi dovuti ai chilometri percorsi per correre dietro alle gonnelle. Scopriamo pure che da giovane capitano scapestrato era capace di far compiere un testa-coda alla Perla Nera (una virata sull’ancora) in mezzo agli scogli del Triangolo del Diavolo che poi sarebbe l’incrocio tra via Ardeatina e via di Grottaperfetta a Roma.
Con la manovra da coatto borgataro col braccio di fuori della Perla Nera, Sparrow ha condannato Capitan Zeppola e il suo equipaggio a vivere come zombie cotti alla brace per l’eternità. Direi che ce ne è a sufficienza per provare del risentimento. Quando Jack baratta la sua amata bussola per una bottiglia di rum nel peggiore di pub di Saint Martin, Salazar è liberato dalla maledizione e va alla caccia di Sparrow per vendicarsi. Ora sorvolo su tutte le volte che la bussola passa di mano in Ai confini del mondo e non succede niente, ma è ovvio che Jack/Depp non è più il ghepardo di un tempo (non ricordo nemmeno una sua frase memorabile in tutto il film), anche se la saga l’hanno affidata a due vichinghi e la colonna sonora a uno Zimmer dei poveri (Geoff Zanelli storico collaboratore del compositore che già aveva lavorato in Oltre i confini del mare), per iniettare una flebo di sangue fresco ad alto numero di ottani nella saga, l’obiettivo riesce solo in parte.
La sequenza di apertura che tradizionalmente riguarda una fuga di Jack da una prigione o il tentativo di evitare la forca (in questo caso, segno dei tempi, salvarsi dalla ghigliottina) è probabilmente la piu spettacolare di tutti e cinque gli episodi, con una casa trainata da una dozzina di cavalli a spasso per Saint Martin, viaggio durante il quale facciamo la conoscenza con Carina Smyth (Kaya Scodellario) anche lei condannata a morte con Jack Sparrow, accusata di stregoneria perché esperta di astronomia: Carina è orfana e sta cercando il padre, l’unico suo ricordo in suo possesso è un diario che nasconde una mappa. La bonazza strizzata dentro il corsetto è convinta che seguendo le indicazioni troverà il genitore. Henry Turner (Brenton Thwaites) conosce il padre, vuole liberarlo dalla maledizione di Davy Jones e costringerlo a una vita da sposato con scucchiona Elizabeth Swann/Keira Knightley. Dalla padella nella brace, più brace di Salazar cotto allo spiedo da Jack Sparrow. Così il motore affettivo del film riproduce meccanicamente quello dei precedenti, dove era Will a cercare di salvare papà Sputafuoco Bill, pirati zombizzati dalla maledizione di turno (all’epoca il forziere con i dobloni aztechi o Calypso o da un luogo, Il Triangolo del Diavolo, legame sciolto quando Sparrow perde la bussola, in tutti i sensi…). Perfino la citata “virata sull’ancora” già l’avevamo vista in La maledizione della Prima Luna. Il difetto dei Pirati dei Caraibi – La vendetta di Salazar è un po’ quello di molti sequel-prequel-reboot visto negli ultimi anni: la tendenza a riprodurre le dinamiche di successo che hanno caratterizzato il primo episodio, una meccanica ripetizione che qui si limita a intrattenere per gran parte del tempo. Pur sempre è un merito.
**½ Non sei andato malissimo ma neanche troppo bene… come il Tottenham
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