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7 Sconosciuti a El Royale – E le tette di Chris Hemsworth battono quelle di Dakota Johnson

7 sconosciuti a el royaleTempo di lettura: 3’45”

Ci sono un vecchio prete, un venditore di aspirapolvere, una cantante di colore e una cafona hippie in un albergo costruito esattamente al confine tra California e Nevada. Basta fare un passo a sinistra e sei nello Stato del sole oppure un passo a destra e sei protetto dalle leggi sul giuoco d’azzardo e i liquidi del grande Stato d’Argento. Non è una barzelletta, ma 7 Sconosciuti a El Royale, il nuovo film di Drew Goddard con un cast niente male di facce scolpite, voci letali e femmine demoniache. 

L’hotel si chiama El Royale e, un tempo, nelle sue stanze ci si divertiva una “casinò”, la movida del lago Tahoe si dava appuntamento qui; alle pareti le foto di Frank Sinatra e Marylin Monroe ricordano i bei tempi andati in cui le stelle di Hollywood venivano a trascorrere giorni lieti, giocare, bere e farsi di muscimole organopsichedelico detto anche ovulaccio. Oggi ha perso la licenza per il gioco d’azzardo e affitta le stanze a 8 dollari a notte (9 in California, alcuni pensano che il soggiorno valga un dollaro in più) a volte anche a ore. È rimasto un concierge emaciato e timido, che dorme sul lavoro e fa anche il barman e il facchino. 

Siamo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta. Un tempo, sotto le assi del pavimento delle stanze dell’albergo, criminali in fuga nascondevano borse piene di refurtiva al suono di 26 Miles (Santa Catalina) dei Four Preps, hit dell’anno del Signore 1958, prima che qualche misterioso uomo con il cappello li prendesse a fucilate. Un cartello ci informa che i fatti a cui assistiamo si svolgono dieci anni dopo l’assassinio della borsa sotto la moquette, ma, più avanti, vediamo in tv Richard Nixon, presidente dal gennaio 1969, commentare un possibile cessate il fuoco in Vietnam, ma gli accordi di Pace di Parigi iniziarono solo nel 1972.

 

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Insomma ragazzi, siamo nel Sottosopra, nessuno dei personaggi che si incontrano a El Royale è quello che sembra e, anzi, ‘sto posto porta una discreta iella: la bella faccia da maschino alfa americano con il mento d’acciaio di John Hamm interpreta Laramie Seymour Sullivan, un venditore di aspirapolvere ossessionato dalla Suite Nuziale, che, appena entrato nell’agognata stanza, chiama casa per recitare la preghiera della buonanotte con la figlia. Qualcosa non va: non solo la madre ha cambiato la formula della supplica, ma Laramie (cazzo, questo si chiama come le sigarette de I Simpsons) inizia a smontare il telefono e trova non una, ma ben due cimici, poi fa a pezzi la stanza trovando altre microspie, finché non scopre che lo specchio è finto e dietro c’è un’altra stanza da cui gli ospiti sono spiati. Non solo: tutto intorno all’albergo gira un corridoio da cui le stanze sono controllate.

Già in Quella casa nel bosco Goddard aveva spiato i personaggi, prigionieri in un ambiente controllato. E la canzoncina di apertura aveva fatto accendere una lampadina nel mio cervello, ricordando il prologo di Scappa – Get Out, così lo spettatore attende che entri in campo qualche elemento horror, ma il gioco di Goddard non è a disposizione di una rielaborazione del genere, ma sulla menzogna, le circostanze che ingannano, la memoria che zoppica. Perché in 7 Sconosciuti a El Royale non ci si può mai fidare dell’evidenza e si trasforma in una riflessione sul tempo, la politica e l’umanità nel delirio della fine degli Sessanta. 

Accompagnati dal suono dei successi della Motown tra voci che affascinano, melodie al miele e parole d’amore (per dirne due, Can’t take my eyes off of you e Unchained Melody), si crea un cortocircuito tra ciò che ascoltiamo e vediamo, mentre la pallina impazzita di una roulette corre dentro le psicosi da intercettazione, l’ossessione del talento e del successo, la guerra, le sette sanguinarie e gli spiriti fragili che nell’esaltazione di una comune nei boschi accoltellano e uccidono e straziano il sangue del loro sangue.  

È attraverso un cast incredibile che Goddard riflette sul tempo, i ruoli, ciò che vediamo ma soprattutto la prospettiva da cui assistere a tutto, il voyeurismo, la politica (di mano in mano passa la bobina con la registrazione di politico durante un incontro con una donna: sarà un Kennedy? John? Bob?), la società (il guru figlio delle onde incapace di tenere la camicia chiusa interpretato da Chris Hemsworth che ricorda Charles Manson), la guerra, la droga, la salvezza irraggiungibile, una borsa per cambiare la vita e il male contro cui combattiamo da sempre, il maschilismo tossico, il sessismo, il razzismo, la violenza selvaggia.

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E se Hemsworth ha le tette più belle di una Dakota Johnson in versione operatrice olistica (e ci vuole poco), Jeff Bridges è mostruoso come al solito, mentre sorprende il cameo di Xavier Dolan e la satanica Cailee Spaeny (passata a Roma, alla Festa del Cinema, insieme al regista) ciò che resterà alla fine della visione, sarà la voce celestiale di Cynthia Erivo, star dei musical di Broadway e Londra. Oltre al doppio bestemmione di Dakota che mi ha ampiamente rischiarato la giornata.

PS: in questa recensione non è mai stato usato le parole post-tarantiniano, Lost, Daredevil, Marvel. Ne sono molto orgoglioso.  

bianca nanni moretti pagelle stellette cinema coccinema****½ Fa un po’ di tutto, anche se tutto quello che fa è bello ma inutile, un po’ come la matematica pura: magari non serve, ma è sublime.

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