Alì di Michael Mann e l’eta d’oro della boxe
Mohammad Alì come musica: fluido come un assolo jazz, sexy come una canzone soul, una storia struggente con un sound blues.
È cosi il biopic di Michael Mann dedicato a uno dei piu grandi sportivi della Storia dell’umanità. Alì racconta vita, parola, opere e omissioni di The Greatest dal giorno in cui vinse il titolo dei pesi massimi per la prima volta contro Sonny Liston a metà degli anni Sessanta fino all’ormai mitico Rumble in the jungle di metà dei Settanta. Nel mezzo Alì ha incarnato la figura del campione di boxe e simbolo della lotta per i diritti degli afroamericani.
Dal film di Mann emerge la sua figura iconica, l’espressività del gesto, senza scendere in eccessivi particolari della lotta politica. Sì, c’è l’amicizia con Malcom X, è una parte importante, ma sembra impressionare il suo valore simbolico più quello di messaggero.
Emoziona la cura con cui è preparato il fotogramma finale quando, dopo aver vinto il Rumble in the jungle (come era stato chiamato l’incontro con George Foreman, “la rissa nella giungla”, svoltosi a Kinshasa nel settembre del 1974), Ali guarda il pubblico che lo inneggia, sale sulle corde del ring e alza le braccia al cielo. È tutto lì, nella bellezza del gesto e nell’amore di Mann nel raccontarlo.
La potenza di Alì non era solamente nei suoi pugni e nella sua eleganza, ma nell’essere stato lo sportivo espressione di un momento storico di turbolenze politiche e sociali. Lui era la schiuma del movimento, lui prendeva a pugni il mondo mentre i neri lottavano nelle strade, nelle marce per l’uguaglianza. Ha colpito forte perfino la Corte Suprema e l’intero sistema giudiziario statunitense (battaglia legale e non solo raccontata nel film HBO di Stephen Frears Mohammed Alì’s Greatest Fight). Lui è stato la musica di quell’epoca. Ecco perché il soundtrack di Alì è tanto importante. Alcune sequenze sono degli autentici video di black music, perché Alì era musica e la musica fu uno dei modi con cui l’universo afroamericano si rivelò.
Ad ogni modo, negli spazi lasciati dalla regia di Mann, filtrano bagliori della personalità di Alì: fedele e devoto seguace dell’Islam e del Corano, gli piacevano le gonnelle, si sposa almeno due volte, nel film: la prima la molla perché non si vestiva col burka, la seconda la cornifica con Veronica Porsche (che all’epoca era diciottenne e nel film è interpretata dall’allora 35enne Michael Michele). Alì si scriveva il nome sulla maglietta e poi dici che l’America è razzista; in pubblico parlava spesso in rima. A Mann la storia dell’obiezione non sembra interessare molto: gli importa delle conseguenze che ha implicato ovvero l’impossibilità di boxare quindi lavorare, quindi guadagnare. Ma il riflesso che ce ne offre Mann non è quello di un uomo particolarmente interessato alle implicazioni politiche della sua obiezione di coscienza.
Ciò che emerge fortissimo dalle quasi due ore di Alì è il peso mediatico e culturale che ha avuto la boxe tra gli anni Sessanta e Settanta: pugili carismatici (Alì era capace di minacciare di uccidere il rivale facendo ridere 200 giornalisti e poi magari andare a mangiare con l’uomo che a parole voleva ammazzare) ed eventi oceanici. Il cinema se ne è accorto se è vero che Rocky è figlio di quel tempo (e i rimandi ad Alì, sportivi e non, dentro i film con e di Stallone sono tantissimi) e tutt’oggi il pugilato è uno degli sport più attrattivi per il cinema, uno dei pochi a rendere bene sul grande schermo (e anche sul piccolo). Tutto questo a Mann interessa nell’estasi del momento, nell’amore impressionista per il gesto e l’immagine. Se solo ci fosse stato un attore migliore per incarnare tutto questo. Perché insomma… Will Smith… Starebbe bene giusto in un esercito di figuranti opacizzati.
**** La vita è come una scatola di cioccolatini: non sai mai cosa ti può capitare
Categorie
One thought on “Alì di Michael Mann e l’eta d’oro della boxe” Lascia un commento ›