Visioni (di molto) successive – Art is the new loud
Non è esattamente la cronistoria di un movimento artistico. Exit through the gift shop non racconta la nascita (e forse neanche lo vuole) e la scalata della street art o, magari compiaciuto, spiegare se e come sta cambiando il mondo. Invece, Exit through the gift shop è l’epopea di Thierry Guetta, da negoziante di abiti usati a esponente della street art con l’alias di Mr.Brainwash ovvero come un uomo con poco o nessun talento finisca a diventare un punto di riferimento di un movimento – o almeno a fingere di esserlo. Guetta è un immigrato francese con la mania di riprendere qualsiasi cosa. Non si separa mai dalla sua videocamera. Dopo i filmini delle feste di compleanno delle figlie, inizia a riprendere un cugino che attacca in strada mattonelle raffiguranti i personaggi di Space Invaders. Da quel momento Guetta diventa organico al movimento, riprendendo tutti i personaggi più importanti della scena, fino al Papa della street art, Banksy.
Exit through the gift shop è un documentario attribuito proprio a Banksy che allestisce l’ultima della sue provocazioni: come il battage mediatico intorno alla sua prima mostra a Los Angeles, Barely Legal, abbia creato un attacco febbrile ai collezionisti e i vip losangelini scatenato dalla passione per la street art così da aprire la strada a chiunque che, abbastanza scafato e con dei soldi da investire, fosse stato pronto a coglierne i frutti. Esemplificative le scene in cui Guetta/Mr.Brainwash spiega perchè ha assunto decine di persone per creare le sue opere, di come nessun street artist crei da solo i suoi lavori, mentre appena un’ora prima, proprio attraverso i video di Guetta, abbiamo visto Banksy che, motosega alla mano, distruggeva e ricreava una cabina telefonica inglese. Exit through the gift shop è un documentario su un corto circuito, su come una bolla mediatica apre lo spazio a persone abbastanza furbe per entrare dentro e fare dei soldi. L’immagine simbolo è Guetta/Mr.Brainwash al telefono con dei collezionisti nella sua galleria d’arte piena solo di oggetti messi alla rinfusa che spara cifre a caso per le sue opere: 15 mila dollari, 24 mila dollari e così via. Il documentario, candidato all’Oscar lo scorso febbraio, non è solo il tentativo di Banksy di creare una distanza fra sé stesso e il movimento che rappresenta e la deriva affaristica che ne sfrutta la scia (un po’ la stessa che c’è tra Don Vito Corleone e Tony Montana, i vecchi con dei valori e i nuovi rampanti disposti a tutto, non a caso proprio Scarface è una delle icone che Guetta usa per reclamizzare la propria mostra) ma è anche pieno di bellissime immagini di artisti che mettono “in scena” le loro opere, armati di colla, scale, rischiando l’osso del collo, fino alla madre di tutti gli attacchi d’arte, l’incursione a Disneyland dove Banksy, aiutato da Guetta, ha messo una bambola gonfiabile vestita come un prigioniero di Guantanamo davanti e una delle montagne russe del parco divertimenti. Alla fine la ricostruzione è assolutamente di rilievo e interessante e consente di farsi un’idea e, se si vuole, approfondire il tema. Io così ho anche scoperto che Banksy ha disegnato la sigla di una puntata dei Simpsons: se non vuol dire questo essere diventato mainstream non so cosa possa dirlo.
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