Grand Budapest Hotel – Wes, facce Tarzan
Se c’è una cosa di cui poter esser certi è che un film di Wes Anderson non assomiglierà mai a niente di diverso e niente di meno di un film di Wes Anderson. Grand Budapest Hotel non fa eccezione con quelle belle inquadrature piatte, scenografie e costumi eleganti, griffati, colorati e glamour, l’umorismo sottile e sottilissimo.
Dopo otto film, sono un po’ le cose che mi irritano di Wes Anderson: essere così, troppo elegante come un Roger Federer che si presenta in bianco a un challenger a Tor Pignattara, la spocchia delle amicizia con le case di moda. Però un film di Wes Anderson è pur sempre un film di Wes Anderson e rispetto alla media mantiene una sua freschezza e una originalità unica.
Ho letto alcuni commenti secondo cui Grand Budapest Hotel sarebbe un film sulla narrazione. Non lo è se non nella misura in cui lo sono tutti i film di Anderson e se questo è dedicato allo scrittore mitteleuropeo Stephen Zweig ciò non lo rende solo ed esclusivamente un film sulla narrazione. Ambientato negli anni Trenta, nella immaginaria nazione di Zubrowka in guerra con i vicini, racconta la storia del concierge Gustave (Ralph Fiennes) e dell’eredità che gli lascia una delle sue clienti nobildonne. Piano piano, Grand Budapest Hotel passa dalla commedia al giallo, alla grande fuga fino alla satira geopolitica.
Soprattutto è un’opera che scatta una fotografia a un tempo che non c’è più, che sta morendo per lasciare posto a tempi più barbari. Ecco cosa angustia Anderson: l’ossessione per i colori, il glamour e quel mondo piatto da cartone animato anni Ottanta servono a nascondere la paura perché il nostro tempo, la nostra cultura sta lentamente morendo. Non ci restano che le perversioni sessuali, i valori e le battute di Gustave, mentre i giovani lobby boy dell’Oriente succhiano il nostro fluido vitale e si preparano a prendere il nostro posto.
*** È stata la cosa più divertente che ho fatto senza ridere
Categorie