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Cosa pensa Hollywood della guerra in Iraq?

Una cosa che ho capito in quasi quarant’anni di vita è che il cinema insegna a capire il mondo perchè in fondo è un occhio sul mondo. Ti spiega Wall street, i delicati equilibri nello spogliatoio di una squadra di football, la vita di coppia, ti insegna a essere giovane e anche a essere vecchio.
Partendo da questa convinzione mi è venuta la curiosità di capire cosa ci ha detto e fatto vedere Hollywood (una sorta di sineddoche per tutto il movimento cinematografico mondiale) della guerra in Iraq: le sue premesse, i suoi risultati e le sue conseguenze.

Noi italiani siamo capaci di scannarci su un film che racconta gli anni Settanta. Noi italiani ci avveleniamo su Cesare Battisti. Noi italiani raramente ci fermiamo a riflettere su ciò che accade nei nostri giorni. Gli americani – ma non solo loro – hanno tirato fuori una quantità incredibile di film sulla loro attualità, anche drammatica, sulle guerre degli ultimi anni in Oriente, come noi probabilmente non riusciremo a fare in cento sul terrorismo nostrano.
Secondo me è un movimento contemporaneo. Durante la Seconda Guerra Mondiale c’era la propaganda e l’impegno per i soldati oltremare di Frank Capra e Walt Disney e un po’ di anni dopo che i cannoni avevano taciuto e l’esplosione delle bombe di Hiroshima e Nagasaki sono arrivati i film che esaltavano il coraggio delle truppe americane e alleate e i valori per i quali si battevano. Il messaggio era che noi eravamo nel giusto, che loro erano il male assoluto e che in virtù di questo assioma la guerra sarebbe stata vinta perchè eravamo i buoni.
È con la guerra del Vietnam che si è mosso qualcosa: è stato un passaggio lento ma già qualche anno dopo la fine del conflitto cominciarono ad uscire i primi film che ne raccontavano il dramma senza alcuna voglia di glorificare le truppe.
Con la Guerra del Golfo c’è stata l’esplosione. Tutti hanno a disposizione una fotocamera digitale, una videocamera e un telefonino, così sui nostri computer sono vomitate immagini in continuazione. Il cinema si è dovuto mettere al passo. Il tema forte ha coinvolto firme importanti: Greengrass, De Palma, Winterbottom ma soprattutto ha dato il via a un fenomeno nuovo: i documentari. Ce ne sono a decine sulla guerra in Afghanistan e in Iraq, sul “dopoguerra” (ammesso che lo sia) e sulla ricostruzione: una nuova generazione di cineasti prende in spalla una cinepresa, parte per l’Iraq, si piazza embedded in un plotone dell’esercito e va in giro a fare interviste. Poi le monta. A volte il risultato finale è eccelso, dando davvero un contributo alla comprensione della guerra e del dopo; altre volte è un mero parlarsi addosso.

Dove è cominciato tutto?

Non  a Ground zero. Partì tutto 20 anni prima in Afghanistan. A quel tempo gli invasori erano i sovietici e un senatore americano decide di rendergli la vita impossibile e farlo diventare il Vietnam di Breznev. La guerra di Charlie Wilson è un film di Mike Nichols con Tom Hanks, Julia Roberts e uno stuolo di gnocca capeggiato da Emily Blunt e Amy Adams, la storia, vera, di un deputato americano dedito a donne, alcool e droga che organizzò la più grande operazione di fornitura di armi della storia americana, triangolando con Egitto, Israele e Pakistan le attrezzature necessarie ai mujahidin afgani per respingere i carri armati sovietici. La sceneggiatura di Aaron Sorkin gioca tutto sulla farsa, sul mostro bicefalo rappresentato da un politico con tutti i vizi del mondo (ha solo segretarie bone e dice «Puoi insegnare a una donna a battere a macchina ma non farle crescere le tette» e l’idea di aiutare gli afgani gli viene in un bordello mentre fa l’idromassaggio con due spogliarelliste, beve whisky e intorno a lui sniffano cocaina), che usa tutti gli strumenti della politica per garantire agli afgani le armi per difendersi, al fine di aiutare i profughi, prime vittime di quella guerra. Ma allo stesso tempo ne racconta tutti i limiti perchè, dopo aver portato il Congresso a finanziare con una quantità enorme di soldi la guerra contro i sovietici, non riuscirà a ottenere un misero milione di dollari per costruire delle scuole. Sì, quelle scuole che avrebbero tolto i bambini dalla strada, dall’ignoranza e soprattutto dalle grinfie del fondamentalismo che, dopo la vittoria contro l’Armata rossa, iniziò ad alzare la testa e fare proselitismo. Senza graffiare troppo il film di Nichols evidenzia un punto: manchiamo sempre di un piano generale e il male inizia quando tradiamo i nostri principi. I personaggi de La guerra di Charlie Wilson sono convinti di essere dalla parte dei buoni, così come lo era Capra quando filmava i suoi film propagandistici, ma non riescono ad affrontare e sconfiggere il cuore vero del problema.

Il tradimento dei valori?

Due anni dopo La guerra di Charlie Wilson un documentario racconterà la perdita dell’innocenza di questa generazione americana. Alex Gibney ci porta in taxi nel punto più oscuro dell’operazione di esportazione della democrazia. Taxi to the dark side esce sugli schermi americani nel giugno del 2008 (da noi quasi un anno dopo, nel maggio del 2009) e contribuisce a un cambiamento di clima che porterà all’elezione di Obama. Gibney denuncia in maniera circostanziata, portando numerose testimonianze, come i metodi di interrogatorio svelati già qualche anno prima ad Abu Ghraib erano una precisa strategia favorita dai vertici dell’Amministrazione a stelle e strisce. Il documentario racconta la storia di Dilawar, un tassista afgano arrestato per essere sospettato di aver partecipato a un attentato e morto in prigione cinque giorni dopo con ferite in tutto il corpo. Ovviamente, scopriremo poi, Dilawar non aveva nulla a che fare con i terroristi.
Taxi to the dark side è un pugno nello stomaco e ci pone di fronte alle responsabilità di chi ha governato la guerra e che, con il ricatto del pericolo terrorista, ha giustificato l’abbandono di tutte le norme di civiltà che dovrebbero distinguerci da chi combattiamo, come l’inaccettabilità del ricorso alla tortura. Non solo. Il vero colpo allo stomaco Gibney lo tira alla fine, sui titoli di coda. Suo padre era addetto agli interrogatori della Marina militare statunitense durante la Seconda guerra mondiale e in Corea. In una meravigliosa dichiarazione alla fine del film ricorda come «Durante la seconda guerra mondiale e la guerra di Corea che io ho combattuto, abbiamo sempre creduto di essere dalla parte dei buoni e che negli Stati Uniti uno avrebbe sempre ottenuto giustizia e sarebbe stato trattato giustamente. Vigeva la supremazia della legge, non lo dimenticavamo mai: dietro la facciata degli odi del tempo di guerra c’era una supremazia centrale della legge a cui tutti si attenevano. Noi ci credevamo ed era ciò che tendeva diversa l’America».

Michael Winterbottom ci porta a pochi chilometri di mare dall’America con The Road to Guantanamo. Per descrivere i rastrellamenti, i procedimenti, le torture e la prigionia nel carcere di Guantanamo, il regista inglese sceglie la fiction, raccontando la storia vera, contaminata con le interviste agli stessi protagonisti, di quattro ragazzi, mettendo in finzione l’orrore (autentico) delle torture e dell’assurdità di un sistema di accusa. Quattro amici inglesi di origini pachistane si recano in Pakistan per il matrimonio di un loro amico. Avendo tempo da perdere decidono di fare una scappata in Afganistan, tanto per vedere che aria tira. Non è certo la scelta più intelligente del mondo e i ragazzi non nascondono le loro simpatie “antimperialiste”. Decisamente antimperialista è il trattamento che ricevono una volta arrestati, non degno di una democrazia. Nel campo militare alla cui entrata è scritto “Honor bound to defend freedom” si pratica la tortura per ottenere informazioni, mentre il ministro della difesa americano dice «A Guantanamo rispettiamo in massima parte la Convenzione di Ginevra». Senza contare, ad esempio, che dopo essere stati completamente scagionati, i 3 prigionieri dovettero aspettare tre mesi ancora in detenzione. Qualsiasi dubbio possano suscitare i ragazzi protagonisti, niente giustifica quanto accaduto e proprio il tradimento dei valori di legalità e regno del diritto che hanno fatto dell’Occidente il faro della civiltà negli ultimi duemila anni, sembra mettere fortemente in pericolo il nostro stile di vita. Winterbottom ha preso a cuore l’argomento. È il regista anche di Cose di questo mondo (la storia di due profughi dell’Afghanistan che cercano di raggiungere Londra) e A mighty heart  sulla morte del giornalista Daniel Pearl.

Di tutt’altro tenore Fair Game. Qui la questione in gioco sono le armi di distruzione di massa, il casus belli dell’amministrazione Bush contro l’Iraq di Saddam Hussein. Non ci sono e non ci sarebbe il movente alla guerra ma il Governo decide di manipolare alcune informazioni di intelligence per far credere all’opinione pubblica che il dittatore stia preparando bombe sporche. Alcuni funzionari si oppongono, battendosi per la verità. Ispirata a un fatto realmente accaduto, è la storia di un agente Cia sotto copertura e di suo marito, diplomatico, la cui vita è sconvolta quando ostacolano la volontà dell’Amministrazione Bush di muovere guerra all’Iraq. Soprattutto, è il film in cui Naomi Watts gira per i corridoi della Cia con un paio di pantaloni grigi attillatissimi, inseguita dalla cinepresa ingrifata di Doug Liman (chissà cosa avrà pensato la vera protagonista, Victoria Plame Wilson, quando gli hanno detto che sarebbe stata interpretata da Noami Watts? “Quella con quel gran bel culo?”). Fair Game è un film “politico” sulle premesse della guerra, che vuole scuotere le coscienze ma anche pieno di luoghi comuni cinematografici come l’ineffabile panchina in un parco di Washington in cui una gola profonda ti rivela segreti inimmaginabili o ti minaccia se continui a rompere le scatole. La sceneggiatura gira intorno attraverso alcuni punti predicatori ed ha una certa efficacia emotiva come il monologo sulla difesa della democrazia per ricordarci chi siamo dopo aver gioito per la morte di Osama Bin Laden.
Stesso tono per Green zone. Qui siamo a Baghdad, nella Zona Verde, e il ranger Matt Damon, frustrato dopo tutti i tentativi andati a vuoto di trovare le famose armi di distruzioni di massa, decide di seguire una sua pista, aiutato da un agente della Cia che non crede alle bugie del Governo (“Un agente della Cia buono? Nah non ci crederà nessuno”, deve aver pensato Bush). Greengrass non mette in scena solo le bugie per fare la guerra (“La ragione per cui si fa una guerra è sempre importante”, “Cosa accadrà la prossima volta che chiederemo fiducia?”), ma i destini del nuovo Iraq (“Non sta a voi decidere cosa deve succedere qui”) fino allo sguardo su Baghdad illuminata dagli spari e le esplosioni, mentre rimane ferma la fiducia nel giornalismo investigativo, unico anticorpo della democrazia al conformismo dilagante in una nazione che si sente in guerra contro chiunque (finale con tanto di musichetta epica mentre si scorrono le email dei principali quotidiani del mondo contattati dal protagonista per svelare il complotto sulle false armi di distruzione di massa). Con Green zone, Greengrass mette in fiction le conclusioni e le ricostruzioni dei principali giornali ma anche di tantissimi documentaristi.

La situazione sul campo

Ma cosa sta accadendo in Iraq? Abbiamo scritto della mania documentarista, ma c’è anche un altro fenomeno: quello dei filmini realizzati dagli stessi soldati, con le loro videocamere o i telefonini; a volte sono caricati su YouTube, altre diventano materiale per un film. È il caso di The war tapes, girato da alcuni ragazzi della Guardia Nazionale. Non ho mai avuto chiaro chi fossero i componenti della Guardia Nazionale, ogni tanto se ne sente parlare, anche nei film. Be’, l’ho scoperto grazie a questo film. Sono dei civili a tutti gli effetti per 28 giorni al mese che per un weekend giocano alla guerra. Credeteci o no ma l’esercito degli Stati Uniti ha mandato nel Golfo Persico anche loro. The war tapes è esattamente il resoconto delle riprese di 3 ragazzi che fanno parte della Guardia Nazionale. Non c’è nessuno a proteggere l’operatore: sono i soldati che si trovano sul campo a riprendere quello che accade. Colpisce il rumore dei proiettili, le esplosioni: i suoni non sono i soliti di un film di Hollywood, senti subito la differenza. Vere bombe, veri spari come vero è il canto del muezzin a sera, capisci come il suo copione non sia stato scritto a tavolino da Aaron Sorkin o Akiva Goldsmith. Con occhio “innocente” (questi ragazzi credono davvero nel loro Paese, altrimenti non rischierebbero la vita lontano da casa con una vita “normale” alle spalle, fare il soldato non è il loro vero lavoro) puoi vedere, direttamente dall’Iraq, alcune assurdità, come la mensa-fast food con le Iraqi freedom fries, le patatine della missione mediorientale che Burger king ha pensato per gli eroi oppure la scorta ai camion che trasportano la cacca, cosa di cui non ho capito il motivo, con i camionisti senza il parabrezza, o il cimitero degli equipaggiamenti mentre i bambini figli di questi cineasti con il fucile crescono respirando la cultura militare e giocano con le armi GI Joe o gli zainetti Iraqi Freedom.
Iraq in fragments propone un resoconto attraverso delle interviste per comprendere la situazione della popolazione. È in arabo e ci riserva dieci minuti di lezione sulla sintassi e la grammatica irachena. È suddivisa in tre storie: quella di Mohammed e la sua difficile vita di bambino; un’analisi del popolo di Sadr, uno dei “Signori della guerra”; la condizione dei curdi. Ciascuno dei capitoli è uno spaccato approfondito non solo di cosa accade in quel paese, ma anche del modo in cui ragionano le persone.
Tutt’altro tono per No end in sight che sembra Green Zone ma sotto forma di documentario, un accuratissimo e spietato atto di accusa all’amministrazione americana che ha speso 1,8 trilioni di dollari per invadere un paese per motivi non chiari, anzi, completamente fasulli.
My Country My Country si svolge nei giorni antecedenti le prime elezioni dopo l’invasione americana. Ci sono interviste che raccontano il punto di vista iracheno sulla guerra, su Saddam e sulla democrazia ma dubito sul reale valore di queste interviste rilasciate di fronte alla cinepresa.

La generazione perduta

Al di là delle considerazioni socio-politiche, Platoon insegna che “The first casualty of war is innocence” e l’assunto oliverstoniano è ancora più valido in Medio oriente. Film e documentari raccontano come un’intera generazione si sia perduta tra le sabbie irachene e afgane.
Uno dei film che si sofferma sull’autentica perdita dell’innocenza, la fine del diritto all’infanzia dei bambini afgani, curdi, iracheni, è Turtles can fly, capace di trasmettere un dolore quasi insopportabile. È la storia di alcuni bambini in un campo profughi curdo al confine tra Iraq e Turchia, alla vigilia dell’attacco americano al regime di Saddam Hussein. È il primo film realizzato in Iraq dopo la caduta del regime baathista. Satellite, tredicenne soprannominato così perchè installa le antenne satellitari per i vecchi del campo che vogliono sentire le news sulla guerra, organizza la vita degli altri bambini, portandoli a recuperare le mine e rivendendole. Si innamora di una ragazzina arrivata da poco, Agrin, che ha un fratello disabile (ha perso entrambe le braccia) con il dono della chiaroveggenza e ha sempre con sé un ragazzino cieco. Quest’ultimo è il figlio di Agrin stuprata giovanissima. La ragazzina ucciderà il piccolo poco prima di togliersi la vita, e prima ancora che le truppe occidentali entrino baldanzose nel campo profughi. Le piccole storie dei ragazzi sono di una crudezza infinita e scene come il kerosene utilizzato contro il mal di denti o Satellite che, con i suoi tredici anni, va al mercato per scambiare le mine con tre mitragliatori di fabbricazione russa credo diano un nuovo significato all’espressione “infanzia rubata”.

Per il resto, il cinema si è occupato principalmente della generazione perduta dei ragazzi e delle ragazze americane spediti dall’altra parte del mondo a compiere atti orribili. Nelle interviste ascoltate negli innumerevoli documentari – alcuni anche francamente inutili – la costante sembra essere l’inconsapevolezza, colpevole vorrei aggiungere io, di chi è partito per il fronte, l’ignoranza dell’essere costretti a uccidere, a difendersi e il dover scendere a patti con tutto ciò che questo rappresenta. Occupation dreamland colpisce proprio per questo: tutti i soldati intervistati sono stupiti dell’odio della gente e l’impossibilità di incidere veramente sulle vite di queste persone. Alcuni sembrano delle sanguinarie teste di cazzo, altri sensibili ragazzotti mandati al fronte per sbaglio e che in vita loro non devono aver visto neanche mezzo film di guerra perchè se vai in guerra si presume che tu debba sparare e, se lo fai, nove volte su dieci è per uccidere prima di essere ucciso a tua volta, quindi… Perchè tanta meraviglia? Stai recitando per la cinepresa o sei veramente un idiota? Il documentario di Ian Olds e Garrett Scott alla fine ti lascia addosso solo questa sensazione e la certezza che non sia stato aggiunto niente di nuovo all’argomento. Cosa che cerca di fare Brian De Palma con Redacted: il regista sembra più interessato al corto circuito creato da una guerra di cui crediamo di sapere tutto, un avvenimento storico che ci è mostrato in tutta la sua brutalità ma che, invece, è insondabile come i misteri dell’Uomo, riempiendola di un macabro senso dell’umorismo (come l’ufficiale che salta in aria mentre spiega come sopravvivere in Iraq o la giornalista che intervista un soldato che ha appena sequestrato dei fogli in casa di un sospettato e gli chiede come fa a sapere che siano dei documenti importanti non ricevendo risposta). De Palma lavora proprio sui video che i soldati riportano a casa dal fronte e che, spesso, caricano direttamente su YouTube. Viaggiamo sul binario della fiction che ricostruisce una storia vera e i video dei soldati che questa storia rielaborano. Perfino i servizi giornalistici delle televisioni o i video dei terroristi sono “ricostruiti” come se ci trovassimo in un documentario, ma in effetti non è così. Tutto è artificiosamente rielaborato da DePalma-Omero, che ci conduce attraverso una storia di abuso, di prepotenza e di vendetta delle truppe di invasione americane. E se qualcuno ha il coraggio di denunciare non riuscirà a scalfire il muro della versione ufficiale “redacted” (che tradotto significa “preparato per la pubblicazione” il che spesso vuol dire che in un documento “redatto” sono state cancellate con una riga nera le informazioni soggettive o sensibili). E DePalma ci consente di tornare al punto di partenza: per il regista de Gli Intoccabili la prima vittima della guerra è la “verità” come fa a dire a uno dei suoi personaggi-soldato. Così, sebbene sappiamo tutto dell’Iraq e di ciò che accade, anche le cose più turpi e violente, quello che ancora non capiamo è come dei ragazzi possano stuprare e bruciare il corpo di una quattordicenne e massacrare tutta la sua famiglia per tener nascosto il fatto. Sì, perchè tutto questo DePalma lo ha riportato (o redatto) dalla cronaca irachena.
Un altra fiction che vuole passare per documentario è Battle for Haditha di Nick Broomfield. Anche qui al centro sono dei militari statunitensi che massacrano dei civili iracheni, in una cittadina (la Haditha del titolo) dove solo poche settimane prima c’era stata un grande battaglia tra l’esercito americano e i rivoltosi iracheni. Quindi, i nervi erano un po’ tesi… Cosa volete che sia se dopo l’esplosione di una bomba lunga la strada i soldati sopravvissuti decidono di sterminare tutti quelli che gli capitano a tiro? Be’, è accaduto. A tutto contribuiscono a dare un tono involontariamente farsesco le lacrime del terrorista che si pente per ciò che ha scatenato o il marines che piange nel bagno o racconta i suoi incubi dopo aver trucidato decine di uomini e donne inermi.
Il punto delle vere vittime della guerra è al centro di The ground truth. Con il film di Patricia Foulkrod torniamo alla forma di espressione del documentario per approfondire un altro aspetto della guerra: i soldati, sì, intervistati su quello che accade in Iraq, interviste sulle loro ferite, quelle dell’anima provocate da ciò che hanno visto ma anche quelle nel corpo. Se è vero che la tecnologia consente oggi di tenere in vita soldati che, con le stesse ferite in Vietnam, sarebbero morti, è altrettanto vero in patria tornano dei disabili, senza un braccio, una gamba, o tutti e due, sfigurati nelle membra. Anche qui incontriamo ragazzi ignari, che abbracciano la vita militare per i più disparati motivi – pagare l’università, una casa o più semplicemente trovare un lavoro che li tolga dalla strada delle periferie delle metropoli statunitensi – e poi scoprono che devono partire per un paese lontano pieno di sabbia e uccidere gente che ti vuole uccidere per primo. Evidentemente gli intervistati non hanno mai visto Full Metal Jacket… Ah, il buon vecchio Kubrick. Ragazzi che si trovano al centro di una guerra non convenzionale in cui il nemico non ha una divisa ma può essere chiunque. “Non è guerra, é vendetta” dirà uno degli intervistati. “Colpire per primo, come insegna la strada”, sostiene un altro. Senza trascurare quelli che sono definiti “The emotional cost of this war”: tantissime interviste raccontano di reduci feriti nell’anima e nella psiche, il post traumatic stress disorder ovvero l’insieme delle sofferenze psicologiche che conseguono ad un evento traumatico, catastrofico o violento.
Alla guerra in Iraq arriva, infine, anche la televisione con la serie tv Generation kill. Tratta dal libro di una giornalista di Rolling Stone (che inspiegabilmente nella serie cambia sesso e diventa un uomo) è un ritratto non tanto della guerra ma dei ragazzi che la guerra la fanno, dei continui confronti con gli ufficiali, impegnati più a mettersi in mostra con i propri superiori piuttosto che a pensare all’incolumità dei loro uomini, più preoccupati dalla lunghezza dei baffi piuttosto che della efficienza degli armamenti. Ne emerge il ritratto di uomini (anche se sarebbe più corretto dire ragazzi) razzisti, sboccati, drogati. La serie è intrisa di una serie di aneddoti istruttivi su quello che è la guerra in Iraq e ciò che sarà il futuro del Paese: i soldati si incoraggiano al grido di “Kill al mio tre”; al primo contatto tra americani e iracheni i primi fottono i secondi; le missioni prevedono recupero di un ufficiale che si è perso per andare a cagare; come in Mash, alla radio si ascoltano ufficiali pazzi che danno messaggi deliranti, che litigano per dimostrare chi ce l’ha più grosso, che bramano una missione dopo l’altra per soldati che prima sparano e poi pensano.

Il fronte interno

Fin qui le notizie dal fronte. Negli stessi Stati Uniti si soffrono le ferite di un conflitto prolungato. Hollywood non ha rinunciato a raccontarcelo. Anche qui c’è la vena complottista: la guerra al terrore è la scusa per un’amministrazione composta da falchi antidemocratici, assetati di potere, per comprimere le libertà civili e progettare una società sempre più militarizzata. È il caso di State of play, film con Russell Crowe e Ben Affleck. Il primo ha accettato il ruolo perchè libero di mangiare hamburger e imbrattarsi la camicia di senape; il secondo perchè finalmente può interpretare il cattivo. Si tratta di un adattamento cinematografico di una serie inglese, trasferita al di qua dell’Atlantico e attualizzata in questo tempo in cui il prodotto da esportare è la democrazia. Be’, Crowe è un giornalista d’inchiesta, uno di quei cagnacci che in Italia non sappiamo cosa sono finchè non vediamo i film americani che ce li spiegano, uno che ama prendere appunti con la penna su quaderni unti di grasso; un ex compagno di college, deputato del Congresso statunitense, è finito in uno scandalo sessuale. Il giornalista d’assalto ci mette il naso dentro e scopre che i soliti cattivoni stanno cercando di militarizzare la nostra democrazia. È una storia di contractor privati da mandare a fare la guerra al posto della gioventù a stelle e strisce ma è anche il classico thriller con doppio giochisti e doppio doppio giochisti. Al Crowe giornalista affiancano una ragazzetta sexy brava su internet – una che non sa cos’è una penna ma compra la lingerie da Victoria’s secrets e sa come usarla; per inciso si tratta di Rachel McAdams, che a me fa molto sesso, ed è anche il motivo che ricordo di aver visto questo film. Per la cronaca (rosa) non so se Crowe si è trombato la McAdams ma ho dei grossi sospetti che sì, e gli è anche piaciuto.
Fahrenheit 9/11 è il film complottista di Michael Moore, che parte dai legami tra la famiglia Bush e quella bin Laden per evidenziare come l’attentato alle Torri Gemelle sia stato sfruttato per scatenare le guerre contro Afghanistan e Iraq esclusivamente per l’interesse nel petrolio e, con concetti meno marcati, per condurre una guerra interna al proletariato degli stessi Stati Uniti, classe sociale che ingrossa le file dell’esercito.
Di altro tenore Unthinkable. L’argomento è vicino a quello della guerra in Iraq, forse più contiguo alla sua motivazione ufficiale: l’attacco alle Torri Gemelle. Qui un terrorista dichiara di aver piazzato una bomba sporca in una città degli Stati Uniti e un’equipe di federali e membri dell’esercito deve trovare la bomba prima che esploda. Il colpo di teatro è che il terrorista è stato catturato e bisogna estorcergli l’informazione. Il punto è proprio questo: cosa siamo disposti a fare e ad accettare per salvare la vita dei vostri cari? Rinunceremmo ai nostri valori? Il rispetto e la dignità umana, lo stato di diritto, la negazione della tortura, pur di strappare quella informazione? Unthinkable gira proprio qui intorno, e lo fa in maniera riuscita, piana, spietata, parlando senza ipocrisia più al nostro stomaco che alla nostra mente. Mi è tornato in mente dopo l’esecuzione senza processo di bin Laden, un abbinamento non proprio casuale. Persino i gerarchi del regime nazista furono processati.
Vicino ad Unthinkable c’è Rendition-Detenzione illegale: il tema sono i rapimenti di cittadini stranieri sospettati di terrorismo, trasferiti coattivamente all’estero per torturarli. A causa di una telefonata arrivata per sbaglio un cittadino egiziano, sposato ad un’americana (Reese Witherspoon), è rapito dalla CIA, portato in Egitto e “interrogato”. Parallelamente, il funzionario egiziano che conduce gli interrogatori insieme a Jake Gyllenhaal è vittima della spirale d’odio antigovernativa nel suo paese, quasi un’anticipazione delle rivolte arabe a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi. Il film espone bene le ragioni di tutti, ma soprattutto si sofferma su un altro dei momenti in cui una grande democrazia viene a patto con i propri ideali. Esemplificativo è il duello verbale tra una Meryl Streep che per una volta fa la cattiva della CIA e Peter Sarsgard, portaborse di un senatore democratico in cui la Streep appoggia la strategia dei rapimenti perchè consentono di fermare gli attentati e salvare delle vite innocenti. Meryl Streep che ritroviamo nel verboso e noioso Leoni per Agnelli. Francamente vorrei non averlo visto.
Se Unthinkable è un pugno diretto al nostro stomaco e Rendition un buon thriller che si ispira a veri fatti di cronaca, di tutt’altro tenore è Theater of war. Il documentario passato al Festival di Roma nel 2008 racconta la messa in scena di Madre coraggio di Brecht al Public Theatre di New York. Quell’anno fu il mio film preferito, come scrissi: “Un vero capolavoro. Partendo dalla messa in scena di un’opera di Brecht, gli autori, gli attori e vari testimoni ci raccontano il dramma del nostro tempo, la guerra in Iraq, la manipolazioni del potere e dei media. Un’opera destinata a scuotere le coscienze. Se non volete essere scossi, evitatelo”. L’arte come lotta, come strumento per far circolare il sangue nella mente di chi è stato travolto dalla propaganda guerrafondaia. Ah, dimenticavo, anche qui c’è Meryl Streep.
Come gli attori di Theater of war, anche Woody Harrelson e Ben Foster vanno metaforicamente in scena in The Messenger: sono due soldati reduci dell’Iraq, il loro compito in patria è comunicare ai familiari la perdita del loro congiunto in Iraq. Seguono un protocollo, il più distaccato possibile ma non si può non essere toccati quando si viaggia in compagnia di tanto dolore. Così i due, ingessati nelle loro divise, quando se ne spogliano perdono il loro sostegno e lentamente vanno alla deriva tra alcol e rapporti che si sfilacciano. Ma anche il dolore di chi riceve questo genere di notizia colpisce duro. Come colpisce in Grace is gone: John Cusak è il marito di una donna soldato che muore in Iraq. Non ha il coraggio di dirlo alle due figlie, così parte con loro verso un parco divertimenti. Dopo tre giorni spensierati, glielo dirà di fronte all’oceano. È un film che cerca di toccare tutte le corde utili per suscitare emozioni e commozione ma il punto di vista interessante: l’uomo è a casa mentre la donna combatte, lui non è potuto diventare un soldato per un problema fisico ma crede nella guerra e nelle sue motivazioni, deve crederci perchè altrimenti tutto il suo universo andrebbe in frantumi con quello che lui stesso è.
In Harsh times siamo completamente dietro le quinte: Christian Bale è reduce del Golfo, decorato e congedato. Vuole entrare in polizia per sposare la fidanzata messicana che lo aspetta oltre il confine. Passa le sue serate con Mike, amico nullafacente in cerca di lavoro che si tromba Eva Longoria (che lo mantiene pure). I due bivaccano tra risse, alcol, droga, criminalità in un deserto dei valori e una solitudine inquieta che conduce all’autodistruzione.
Invece, in Home of the brave di Irwin Winkler e con Samuel L. Jackson e Jessica Biel, quattro militari affrontano il ritorno alla vita di tutti i giorni.
Rendition e Harsh times mescolano il linguaggio del thriller e dell’indagine con il tema della guerra in Iraq e le sue conseguenze. Nella valle di Elah di Paul Haggis, premio Oscar per la sceneggiatura di Crash, fa lo stesso. Stavolta è un padre che va alla ricerca del figlio, soldato scomparso sul suolo patrio dopo essere rientrato dal fronte. Hank, interpretato da un misuratissimo Tommy Lee Jones, entra nell’incubo delle vite di ragazzi squassati dalla violenza, tanto da non controllarla, fino a rivolgerla gli uni contro gli altri. Il tutto in un Paese in cui continuamente, alla radio e alla televisione, passano le notizie della guerra, a raffigurare una nazione in guerra mentre dentro ai cuori e alle anime di intere generazioni, quelle dei figli ma anche quelle dei padri, i valori vengono uccisi da una serie impressionante di ferite dell’Homeland, in cui la violenza è dappertutto, al fronte straniero come tra i cuori di colleghi, amici, parenti. Come l’irriconoscibile Charlize Theron, bistrattata sul lavoro perchè donna, a cui toccano i piccoli casi irrisolti, e che si ritrova sulla strada di Hank nel suo piccolo viaggio verso l’inferno di una guerra che lui stesso visse (è un veterano del Vietnam) ma che fatica a riconoscere.

L’inizio e la fine (?)

United 93 è il film più bello sull’11 settembre perchè analizza l’avvenimento più globale, visto e rivisto del nostro tempo in un ottica chiusa dentro la cabina del quinto aereo, quello che si schiantò lontano dal suo obiettivo grazie al sacrificio dei suoi passeggeri. Greengrass – lo stesso di Green zone – ci offre una visuale ristretta, fa vedere solo quello che i passeggeri di quel volo, conosciuto come “il volo dimenticato”, potevano sapere, stringe la cinepresa su tutti i dettagli come l’imbarco e le operazioni di volo, per poi accelerare ancor di più quando si arriva al culmine: ci fa respirare tutta la tensione e mette in scena “quasi” un documentario per la forza e l’oggettività del racconto. (Su quel giorno ci sarebbe anche World trade center di Oliver Stone ma è chiaramente un film fake che il regista ha girato per farsi perdonare le anti-americanate del passato, e poi c’è Nic Cage che al posto dei capelli ha un casco).
The hurt lockerè il pluripremiato film agli Oscar di due anni fa e ne ho scritto qua. Non è affatto un film di guerra ma su una sensazione, quella di quando ti trovi negli istanti decisivi della tua vita, quando la vita e la morte tua e di chi ti sta vicino dipende da quale filo tagliare. È una sfida, contro un nemico invisibile oltre che contro se stessi. Il film racconta un turno, 40 giorni, tra gli artificieri di Baghdad quando l’arrivo di William James porta sulla scena il Messi del disinnesco, un uomo dal talento incredibile nel suo lavoro e che cerca il brivido, l’adrenalina della sfida in cui in ballo c’è tutto. La Bigelow non ci regala “il fronte” e la battaglia ma la droga che la guerra rappresenta, portandoci tra la polveri di una città spezzata, in cui il pericolo è dietro ogni angolo.

Gli altri

Conspiracy è un film terribile, il rifacimento di Giorno maledetto, aggiornato al tempo nostro. Il protagonista non è un reduce della Seconda guerra mondiale ma della guerra del Golfo. Rotten tomatoes lo ha schifato e io l’ho beccato nella cesta dei film a tre euro in un bar-autogrill sull’Aurelia.
The kingdom si svolge in Arabia all’indomani di un attacco terroristico a Riyadh. Un gruppo di intelligence americana indaga sul posto. Cast con Jamie Foxx, Chris Cooper, Jennifer Garner, Jason Bateman e il direttore della fotografia Mauro Fiore, quello di Avatar.
Sulla prima guerra del Golfo è da ricordare sicuramente Jarhead di Sam Mendes tratto dall’auto-biografia di un ex marine, Anthony Swofford. Il film si concentra sull’attesa della battaglia: dopo l’addestramento il protagonista resta 200 giorni in Kuwait aspettando l’attacco via terra che, quando avverrà, sarà puramente virtuale perchè il nemico si ritira. Così il film si concentra sulla vita da campo del marine, il linguaggio e i mille modi per passare il tempo. Anche qui ci sono Jamie Fox e Chris Cooper. Stessa epoca per Three Kings di David O. Russell che ruota attorno a 4 soldati americani che cercano di trafugare una partita di lingotti d’oro. Ci sono George Clooney e Mark Wahlberg ma la scenografia è curata da quella che, poi, farà la regia di Twilight, Catherine Hardwicke. Quando lavori nel deserto, resti per sempre nel deserto…
Meritano una citazione le serie tv The Unit e Combat Hospital (che parte il 6 settembre per ABC) e i documentari Restrepo (vincitore del Gran premio della giuria al Sundance e candidato all’Oscar per il miglior documentario, diretto e prodotto da Sebastian Junger e Tim Hetherington, quest’ultimo un fotoreporter inglese morto lo scorso aprile a Misurata, in Libia), The blood of my brother (su una famiglia separata durante la guerra in Afghanistan), Control room (sui collegamenti tra Al Jazeera e lo United States Central Command, una pellicola che ha a cuore il rapporto tra Governo democratico, militari e libera informazione).

I 10 migliori film sulle guerre in Iraq e Afghanistan (le loro premesse e le loro conseguenze)

  1. Turtles can fly
  2. United 93
  3. Taxi to the dark side
  4. The Hurt Locker
  5. The Messenger
  6. The road to Guantanamo
  7. Unthinkable
  8. Theater of war
  9. No end in sight
  10. The war tapes

Conclusioni: le cose che ho imparato

Gli ultimi tre mesi li ho passati a guardare film su un solo argomento. Ho imparato che:

  • Le armi di distruzione di massa non esistono e non sono mai esistite (Green zone “La ragione per cui si fa una guerra è sempre importante” e Fair game);
  • Che per questo motivo i governanti USA hanno raccontato un sacco di balle al popolo americano, al Congresso americano, al Senato americano e all’ONU (sempre Green zone “Cosa accadrà la prossima volta che chiederemo fiducia?” e Fair game);
  • Che se in Vietnam un’intera generazione ha perso l’innocenza (Platoon) dopo l’11 settembre 2001 gli Stati Uniti hanno perso anche la dignità, con gli omicidi arbitrari, le incarcerazioni e le torture ingiustificate (Taxi to the dark side e gli altri);
  • Che una delle democrazie più antiche del pianeta e senz’altro la più potente ha scatenato una guerra invadendo un paese straniero che aveva senz’altro un lato oscuro molto pronunciato con delle accuse false;
  • Che questa democrazia e i suoi amici hanno rapito, imprigionato, torturato sulla base di vaghissimi sospetti migliaia di persone la cui unica colpa è stata quella di essere al posto sbagliato al momento sbagliatissimo;
  • Che la guerra si è fatta per il petrolio (No end in sight);
  • Che la vittima del petrolio, dopo l’ambiente, è una generazione di ragazzi che torna sconvolta da una terra straniera, dove pensava di passare il tempo mangiando hotdog e bevendo birra, visto che nelle interviste dichiarano che non pensavo di dover uccidere delle persone (mortacci tua, vai a fare il soldato, mica la hostess! – Nella valle di Elah, The ground truth solo per citarne due);
  • Gli iracheni (soprattutto i bambini) e gli afgani (soprattutto i bambini) sono le prime vittime della guerra (Turtles can fly, Iraq in fragments);
  • Che gli iracheni e gli afgani amano il loro paese e che da migliaia di anni odiano i loro governanti (un po’ come noi italiani);
  • “Chi non e capace di uccidere sarà sempre soggetto a chi lo è” (Sergente Brad ‘Iceman’ Colbert, Generation Kill). Amen.

PS: se manca qualcosa, segnalatelo nei commenti, lo vedrò per voi!

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