Prima visione – Dobbiamo davvero parlare di Kevin
Kevin è un personaggio di finzione. Kevin ha massacrato numerosi compagni di scuola con arco e frecce. Kevin è pazzo e, a sentir lui, una volta sapeva il motivo del suo gesto ma ora non è più tanto sicuro. Kevin mangia schifezze, ha tenuto il pannolino fino a un’età in cui nessuno dovrebbe tenere il pannolino. Quando era piccolo, la bocca di Kevin era un disastro. E Kevin non parlava.
Kevin ha una madre. I due hanno sempre avuto un rapporto difficile. Quando Kevin ha massacrato i compagni di scuola, ha anche distrutto la sua famiglia. Infatti, Kevin aveva un padre; Kevin aveva una sorellina. Kevin sembra aver organizzato tutto per rendere la vita della madre un inferno in terra.
…E ora parliamo di Kevin di Lynne Ramsay è tratto da un libro di Lionel Shriver (che, malgrado il nome, è una donna) e affronta il dramma delle stragi nelle scuole dal punto di vista del genitore del mostro, scavando sul peso di un tale fardello. Qui è inserito un ulteriore tema: il complesso rapporto madre-figlio, un odio-amore, repulsione-attrazione che permea tutta la pellicola. Fin da neonato Kevin sembra rifiutare la madre; più cresce, più Kevin elabora modi sempre più complessi per ferirla. Allo stesso tempo Eva, interpretata da una solidissima Tilda Swinton (perfetta, come l’interprete di Kevin, Ezra Miller, che avevo già notato in Afterschool, mentre mi è sembrato fuori posto John C. Reilly che evidentemente dalla commedia sta cercando di strambare verso il dramma familiare, ma quando lo vedo mi chiedo sempre da quale angolo spunti fuori Will Ferrell), percepisce il “rifiuto” del figlio, ogni tanto sembra cedere alla disperazione, alla voglia di fuga dalla famiglia e addirittura alla violenza, ma allo stesso tempo qualcosa di invisibile la incatena a suo figlio. Una catena tanto forte che, anche in prigione, lei si sottopone alla visite settimanali con una dedizione all’autopunizione degna del monaco che si flagellava de Il Codice da Vinci.
Si avvicina l’anniversario della strage, Eva cerca di uscire dal suo stato di crisi esistenziale che il massacro ha innescato, tenta di ricostruire la sua vita ma non può fare a meno di ricordare e ripercorrere nella sua mente il rapporto con Kevin, fino a giungere alla fatidica domanda: “Perchè”.
Per arrivarci Lynne Ramsay porta il suo personaggio in percorsi onirici diurni e incubi notturni, cura la fotografia e le luci della notte coniugandole in tutte le sfumature del rosso, un colore che permea tutta la pellicola fin dalla scena iniziale, quando dietro la finestra che dà sul giardino della villa familiare dove Eva troverà marito e figlia trucidati, siamo catapultati in un’orgiastica festa popolare in cui quintali di pomodori schiacciati sono riversati sulla folla.
Da qui, sappiamo dove finiremo ma non capiamo come. La perfetta macchina della tensione emotiva creata dalla Ramsay ci porta in un angolo, dove attendiamo di vedere la strage con i nostri occhi e cercare di comprenderne le ragioni anche solo attraverso la dinamica. Ma la regista ce ne priva, lasciando con una sensazione a metà tra il deluso e il sollevato.
Intanto, Eva riversa su di noi tutto il suo dolore, senza perdere mai la fierezza di un volto scolpito, dove le domande si annidano e le risposte scavano tracce, in cui le macchie rosse restano dove sono, anche senza un motivo.
La battuta
-That’s no point. That’s the point
**** La vita è come una scatola di cioccolatini: non sai mai cosa ti può capitare
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Questo lo voglio vedere al più presto, perché mi incuriosisce e non poco, soprattutto dopo aver letto il tuo post.
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