The Brutalist: l’architetto che non c’era
The Brutalist è il film biografico sul grande architetto ungherese László Tóth, diretto da Brady Corbet, candidato a 10 premi Oscar tra cui Miglior Attore per Adrien Brody, 22 anni dopo Il pianista.
Se non fosse che The Brutalist non è un biopic nel senso che László Tóth non è mai esistito. Libero adattamento de La fonte meravigliosa di Ayn Rand, Corbet edifica la vita del suo Tóth come il suo personaggio innalza sinagoghe, biblioteche e grandi centri culturali, costruisce una storia che dallo sterminio nei campi di concentramento fino alla costruzione del complesso rapporto tra Tóth e il suo mecenate racconta in filigrana lo stato dei rifugiati, l’accoglienza della terra dei sogni americana, la violenza del capitalismo, i rapporti di forza interni e le spinte per la crescita delle nazioni, lo spietato rapporto di amore-odio e amore-possesso tra padrone e dipendenti tra Stati Uniti ed Europa fino alla corsa agli armamenti.

Ouverture
«I miei edifici li ha ideati per resistere all’erosione delle rive del Danubio».
Scampato alle persecuzioni nel campo di concentramento di Buchenwald, l’ebreo ungherese László Tóth (Adrien Brody) fugge negli States. Con una terribile, claustrofobica e dinamica sequenza, Corbet porta il nostro eroe dai treni di disperati in cerca di rifugio fin sotto la Statua della Libertà, simbolicamente mostrata a testa in giù.
Tóth trova accoglienza vicino Philadelphia da suo cugino Attila (Alessando Nivola), che ha cambiato il cognome da Molnar in Miller, ha aperto un negozio di arredamento e si convertito al cattolicesimo per abbracciare la nuova vita nel nuovo mondo dove ha conosciuto la sua mogliettina del Connecticut, Audrey (Emma Laird). Passerà brutti momenti László mentre cerca disperatamente di farsi raggiungere in America da sua moglie Erzsébet (Felicity Jones) e dalla nipotina Zsófia (Raffey Cassidy). Conosce un potente e ricco imprenditore – Harrison Lee Van Buren interpretato da un mastodontico Guy Pearce – e con lui sembra instaurarsi un costruttivo rapporto tra mecenate e artista («Ho trovato la nostra conversazione persuasiva e intellettualmente stimolante» dice il milionario).
Van Buren affida a Tóth la costruzione di un centro culturale per la comunità di Doylestown, vicino alla sua residenza, dedicata alla memoria di sua madre.
I lavori procedono tra mille difficoltà, come l’amicizia tra i due uomini. Intanto Tóth è stato raggiunto da sua moglie e la situazione è peggiorata: la donna è su una sedia a rotelle e sua nipote non parla, traumatizzata da quanto visto nei campi di concentramento. Dopo non essere riuscito a farselo venire duro con una prostituta, László è protagonista della scena di masturbazione più triste della storia del cinema, tanto che lui se fa un pianto e la pora Erzsébet/Felicity rischia di stirarsi un braccio.
La vita del nostro eroe passa ancora attraverso il viaggio in Italia tra i fantasmi nascosti nelle grotte dei marmi di Carrara e, dopo una chiosa drammatica del rapporto con Van Buren, si giunge a Venezia dove l’arte del nostro László Tóth è celebrata così come l’amore per la sua adorata Erzsébet mentre la musica elettronica anni Ottanta incornicia tutto.
«Questo posto è marcio. La terra, il cibo che mangiamo… l’intero Paese è marcio»
The Brutalist conquista l’America
I cinegiornali d’epoca esaltano la Pennsylvania, terra d’avanguardia economica e culturale, del cemento, delle case di proprietà, dei diritti civili. Le lettere di Erzsébet scandiscono il dolore dell’Europa devastata dall’odio. Tóth giunge in questa terra promessa dove esuli, profughi e migranti non sono accolti, ma tollerati – come dirà il rampollo di Van Buren proprio a Tóth. Perfino suo cugino lo scaccia a causa delle menzogne della moglie wasp. E quando László e Erzsébet ascoltano alla radio la dichiarazione di indipendenza di Ben Gurion e al di là dell’oceano che hanno appena faticosamente attraversato fiorisce una nuova terra promessa, lo stato di Israele, l’uomo resta ancora convinto che gli Usa possano essere la nazione di una seconda opportunità. E per un momento è così, quando l’incontro con Van Buren sembra rivelare un self made man a tratti brusco, ma interessato al progresso delle arti. Il mecenate scopre un architetto che ha studiato al Bauhaus e ha costruito edifici importanti in patria, a Budapest, in Europa. Ma piano piano i caratteri si rivelano e lo spirito del capitalismo prende il sopravvento: il possesso morale e fisico dei propri dipendenti, lo spirito imprenditoriale rapace, le becera cultura che spinge Van Buren ad affiancare Tóth con un architetto che ha costruito solo centri commerciali.
Solo alla fine scopriremo come dimensioni, aspirazioni e idee della sua opera fossero la rielaborazione dei massacri nei campi di concentramento e della lontananza forzata dalla moglie ovvio come neanche un metro di quelle speculazioni intellettuali potesse scendere a patti con il bilancino di una partita doppia.
L’architettura cinematografica di Corbet
Corbet costruisce la sua storia come una metafora del passato per ripensare il futuro, lo fa dando massa e corpo a turbamenti, ostilità, montagne e palazzi: le carrellate sui grattacieli, il fumo denso di un treno con un destino oscuro o le grotte di marmo di Carrara hanno una fisicità tattile che dà concretezza agli ideali e alle infamità del film. Come se Corbet avesse costruito la propria cattedrale e ammonisca sul passato e racconti il futuro in cui quei ferini divoratori di profitto hanno finito di appropriarsi della terra delle opportunità, pronti a passare all’incasso di un lurido godimento personale. Una cattedrale che si muove nel fluire del tempo mentre lo stato finanzia luoghi di culto e il governo federale testa armi nucleari. Stupro, guadagno, dominio dell’uomo sull’uomo, in un viaggio disperato che coinvolge il destino delle nazioni e spesso questo futuro lo guardiamo di fronte a noi mentre un’auto o un treno o perfino una gondola corrono e noi vediamo la strada o i binari o l’acqua che ci viene incontro chiedendoci “cosa accadrà?” ma noi sappiamo che alla fine «conta la destinazione, non il viaggio».
***** A volte c’è così tanta bellezza nel mondo, che non riesco ad accettarla…
Ecco le migliori frasi e citazioni di The Brutalist
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