The Handmaid’s Tale 3: la recensione della terza stagione
The Handmaid’s Tale (trasmesso Italia in streaming e in esclusiva da TIMvision) continua ad essere uno dei contributi più importanti al nostro tempo e una delle sue letture più inquietanti. La terza stagione della serie nata dall’opera di Margaret Atwood ha alzato l’asticella e ampliato il campo da gioco.
I martiri ispirano, gli eretici sono stupidi. June
Per vedere in Italia la serie che, tra i vari premi vinti, ha conquistato 9 Emmy Awards e 2 Golden Globe, ho dovuto abbonarmi al servizio streaming TIMvision. Per fortuna i 13 episodi sono filati via lisci e potenti entro il mese gratuito dell’abbonamento. Se la prima stagione conquistava con la costruzione di un incubo dispotico, tratteggiato lungo il piano inclinato della nostra quotidianità, delle news dei giornali, della violenza dei social e delle televisioni, la seconda ma soprattutto la terza stagione hanno regalato a June/Difred/Dijoseph e al Racconto dell’Ancella uno sviluppo e una trama. Non si poteva continuare a lungo con le peripezie quotidiane della protagonista, i flashback di un mondo inondato di sangue e i travagli alla ricerca della figlia perduta. The Handmaid’s Tale 3 punta dritto al bersaglio grosso: distruggere Gilead o morire nel tentativo. È questa la convinzione della protagonista, ormai entrata completamente nel lato oscuro e profondamente cambiata dalla costante lotta alla tirannia teocratica.
Pur raccontando la negazione dei diritti della donna, il messaggio più importante di un cast e una serie fortemente al femminile (su tutte Elisabeth Moss, Samira Wiley, Ann Dowd e Alexis Bledel) è proprio l’unione delle neglette e oppresse contro il potere dei maschi. Tra le “Marte” che tramano e le ancelle che si organizzano, la distruzione della dittatura che si è installata negli Stati Uniti può partire solo dall’unione e la ribellione delle donne.
Ecco ciò che faremo. Li osserveremo. Gli uomini. Li studieremo, li nutriremo, li asseconderemo. Potremo renderli forti o deboli. Li conosceremo sotto ogni aspetto. Conosceremo i loro peggiori incubi e, con in po’ di pratica, è questo che diventeremo: incubi. E un giorno, quando saremo pronte, verremo a prendervi. Aspettate. June
Fin dal primo episodio della terza stagione, fin da quel «Burn motherfucker burn», June si convince sempre più di dover entrare in azione, che non c’è salvezza nel perseguire la mera sopravvivenza o la semplice fuga per lei, sua figlia Hannah o per un’amica: l’unico obiettivo dignitoso in un mondo senza dignità è abbattere l’oppressore.
Nel perseguire il suo obiettivo, la serie non tralascia i suoi punti di forza: la potenza espressiva, prima di tutto, come l’episodio ambientato a Washington dimostra ampiamente, il sapiente uso delle luci, la mescolanza degli stili, tutte qualità che abbiamo imparato a conoscere e ad amare fin dal primo episodio, ma che ormai non bastano più, bisogna stupire, bisogna colpire, mettere a ferro e fuoco le case di Gilead, colpirla al cuore.
In questa chiamata alle armi, Miller e compagnia ignorano alcune delle regole che loro stessi avevano creato – la fuga conclusiva è difficilmente immaginabile in un mondo in cui ci sono soldati a ogni angolo di strada con licenza di uccidere – e tirano un paio di colpi bassi, come la scena del salvataggio finale che cerca facile l’emozione ed effettivamente assesta il colpo. In più, ci trasporta più spesso oltre il confine, tra i richiedenti asilo in Canada, anche grazie all’interessante sotto trama dei Waterford. Tra le delusioni, l’includente personaggio del Comandante Joseph Lawrence (Bradley Whitford).
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