Visioni successive – Cose perse in Afghanistan
Nel manifesto di Brothers Tobey Maguire, Natalie Portman e Jake Gyllenhall fanno il trenino dell’amore, probabilmente cantando “Me amigo Charlie Brown” (anche se questo resterà un mistero perchè, come sapete, i manifesti non prevedono colonna sonora). Colui al quale va peggio è Maguire – Uomo ragno: la Portman alle sue spalle probabilmente è munita di un dildo mentre Gyllenhall mette a frutto le esperienze sulla montagna “Rotta di dietro” per portare a termine delle pratiche contro-natura sulla principessa Amidala. Probabilmente nel farlo ripensava alla mamma di Amidala, la principessa Leia, così come noi tutti la ricordiamo ne “Il ritorno dello Jedi”, schiava in abiti succinti di Jabba the Hutt, una visione che ha turbato l’adolescenza di molti, compreso Jake.
Tutto ciò serve a raccontare “Brothers”? No, decisamente. Jim Sheridan, nel cui curriculum c’è la prestigiosa proprietà del primo locale dove si esibirono gli U2 (cosa che mette a frutto facendosi regalare un brano per questo film) mette in scena un rifacimento del film di Susanne Bier “Non desiderare la donna d’altri”, portandolo nel cuore della nazione che conduce la guerra al terrore. È una storia di perdita e di ferite: Sam Cahill è un marines, ha una bella famiglia, una moglie (Grace), due belle bambine. Anche suo padre era un marines, suo fratello Tommy, invece, fatica a trovare il proprio posto nella vita e nella famiglia. Quando Sam muore in missione, Tommy trova la propria dimensione nel cercare di rimettere in piedi i cocci della famiglia del fratello.
Come capita spesso nei film della Bier – e questo rimane in tutte e per tutto un film della Bier – si lavora di sottrazione, sulle cose non dette, sugli sguardi, sui gesti. Il melò così costruito funziona per un po’ e la piacevolezza e il garbo con cui è condotto il gioco, soprattutto dagli attori, permette di passare sopra alcune evidenti lacune tecniche (come gli inserti dell’Afghanistan, girati in digitale, mentre il resto del film è tradizionale, le stesse immagini dal covo dei Taliban sono palesemente girate su territorio statunitense, basta guardare il panorama e le rocce). Poi, per quanto mi riguarda, la magia si rompe e avviene nel momento clou, la scena della grande cena di famiglia in cui esplode la tensione accumulata e di cui non raccontiamo nulla. Da quel momento, i difetti del film prendono il sopravvento. Difetti, per inciso, tutti sulle spalle di Sheridan in quanto gli attori continuano dignitosamente a fare il proprio dovere, con un Maguire che rivela angoli inaspettati del suo talento, la Portman che conferma i suoi progressi in ogni film in cui ci capita di vederla mentre Gyllenhall continua ad essere uno dei migliori della sua generazione. Alla fine, mi sono ritrovato con uno spiacevole senso di sottrazione: privato di un buon film da regista che sostanzialmente fatica da anni a imbroccarne una rovinando, tra l’altro, la scena finale, con una luce palesemente farlocca.
Se amate la Bier andate a riscoprire “Noi due sconosciuti” (pessimo titolo per “Things we lost in the fire”), stesso tono, stessi sguardi, stessi silenzi e una sostanziale coerenza formale e una qualità tecnica che qui manca decisamente.

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Pensa che a me Noi due sconosciuti, pur essendomi piaciuto, è piaciuto leggermente ma leggermente meno di questo. Comunque l’incipit di questa recensione è favoloso, ahah!
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grazie ale, meno male che ci sei 😀 mi sollevi il morale
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A parte che il primo paragrafo della tua recensione è roba da Oscar, per tutto il resto non posso che concordare.
Sheridan ormai lontano dai fasti, e un film sostanzialmente superficiale e piatto.
Si salva però un inaspettato Maguire, in odore di nomination, nella sua miglior performance di sempre.
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