No Other Choice: Il Male, i Bonsai e l’IKEA delle Anime
No Other Choice è il ritorno al cinema di Park Chan-wook, e ovviamente non poteva essere un ritorno tranquillo: il regista coreano riprende la sua estetica barocca, la scuote come un bonsai al vento e ci costruisce sopra una commedia horror grottesca, figlia illegittima di Burton, Blake Edwards e del capitalismo più rancido che potete immaginare. Un film enorme, sfrontato, senza limiti, che passa dal pulp alla critica sociale, dai bicchieri ripresi dall’interno alle lotte nel salotto, dalla paura alla risata cattiva — e alla fine ti toglie la speranza, ti lascia un brivido e, inspiegabilmente, ti fa venire voglia di rivederlo. Se cercate un’analisi che capisca la follia, la libertà narrativa e l’estasi sanguinaria orchestrata da Park, siete nel posto giusto.
Park Chan-wook torna al cinema dopo la miniserie televisiva per HBO Il Simpatizzante e lo fa con lo sguardo dell’artista che dice: “E mo’ famo come dico io”, liberato da freni, algoritmi e suggerimenti degli executive. No Other Choice è esattamente questo: un’opera che non chiede permesso, non bussa, non si giustifica. Entra, uccide (male), ride, sbaglia mira, riprova. E intanto mette su schermo un’umanità che sembra uscita da un laboratorio dove Burton e Blake Edwards hanno cenato troppo pesante.
Scritto dal regista con Don McKellar (sceneggiatore tra gli altri di Egoyan e Cronenberg, anche all’ultimo Crimes of the future), Man-soo, protagonista e fallito omicida seriale fai-da-te, è un uomo intrappolato in un sistema classista che Park riprende con una precisione brutale: nella Corea del capitalismo rampante non c’è spazio per l’empatia, solo per il debito. E per i bonsai. Che qui smettono di essere una metafora zen e diventano, con una certa eleganza macabra, strumenti di sepoltura rapida.
Man-soo è stato cacciato dall’azienda per cui ha lavorato per 25 anni dopo l’acquisizione da parte di una multinazionale statunitense. I tentativi di trovare un lavoro nel suo settore falliscono miseramente tra colloqui grotteschi, umiliazioni e concorrenza spietata. Intanto segue corsi dei “disoccupati anonimi” per superare il trauma e prepararsi alla sua nuova vita. Finché un giorno elabora un piano.

Tratto dal romanzo The Ax (1997) di Donald E. Westlake, fu già portato al cinema con Cacciatore di teste (2005) diretto da Costa-Gavras — un confronto interessante per capire come Park Chan-wook aggiorna un materiale già esplorato in chiave sociale e satirica.
Alla fine della vicenda, la moglie del protagonista, Mi-Ri, rinuncia alle lezioni di tennis. Lei, come Man-soo ha imparato la lezione, lui infatti non difenderà più i colleghi dall’Intelligenza Artificiale. Park ride amaramente con loro, perché prima di fare tesoro della sua esperienza Man-soo mette in scena dei ridicoli tentativi di omicidio, le sue “vittime” diventano un riflesso della sua vita.
Ogni suo tentativo di omicidio fa più ridere che paura, e questa è la chiave grottesca: l’inettitudine del male. Le potenziali vittime sono specchi deformanti del protagonista, doppioni narrativi che lo risucchiano in una spirale di sovrabbondanza, sovrimpressioni e schermi divisi, come se Park avesse deciso che il montaggio non doveva più essere un mezzo, ma un’arma da taglio.
E poi c’è la lotta nel salotto: una delle sequenze più riuscite del film, una sorta di Blake Edwards rivisitato i chiave orientale, mentre le canzoni popolari coreane riempiono l’aria.
Park piazza la macchina da presa dentro bicchieri, tra le piante, sui tetti, ovunque possa fingere di non farsi vedere pur facendosi vedere tantissimo: regia elaborata, evidente, ingombrante, come se temesse che un attimo di normalità potesse compromettere la sua missione di sabotaggio estetico.
Yoo Man-soo è interpretato da Lee Byung-hun, star internazionale noto per Squid Game e qui capace di utilizzare tanti registri espressivi. Al suo fianco Son Ye-jin, una delle attrici più celebri del cinema coreano. E funzionano da paura anche i personaggi secondari: la moglie, i figli, le quasi-vittime, tutti pedine di un gioco sociologico che fa sembrare Parasite un brunch domenicale. Park, come sempre, lavora per eccesso: e nell’eccesso trova la sua verità. Una verità sanguinaria, ironica, ma mai patologica: nel mondo di No Other Choice, il male non è un disturbo, è una coreografia.
Il risultato è un film che toglie speranza, mette ansia eppure ti invita con insistenza a tornare dentro quel mondo storto. Perché, nel caos orchestrato da Park, c’è una libertà narrativa che quasi commuove: nessun freno, nessuna paura di sporcare, nessun desiderio di essere capito fino in fondo. Un film che forse non salverà il mondo, ma sicuramente salverà il cinema dall’essere troppo normale.
Ecco le migliori frasi e citazioni di No other choice
Le migliori frasi e citazioni di No Other Choice
Dicono di non regalare scarpe da ballo a chi ami: potrebbe usarle per scappare.
Sai cos’è la vergogna? Non ti presentare dove la gente fa i propri bisogni.
Rifiutiamo ogni risposta arrivata con Internet. Se non usiamo noi la carta, chi lo farà.
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