Io Capitano
Io Capitano è un film di Matteo Garrone e racconta la tragica epopea attraverso la crudeltà del deserto e degli uomini di due giovani senegalesi per raggiungere l’Europa.
Senegal, giorni nostri, due ragazzini sognano l’Europa, diventare stelle della musica, “firmare autografi ai bianchi”, mentre in Italia due coetanei penserebbero solo a fare video su Tik Tok, spacciare un po’ di droga, picchiare e derubare i coetanei e, al limite, proprio a tempo perso, stuprare e postare video su gruppi Telegram per pedofili.
Alla ricerca di una vita migliore, lavorano di nascosto dalle loro madri per racimolare i soldi per pagare “il viaggio”; madri, per inciso, che in quella parte del mondo fanno ancora paura, anche ai figli sedicenni, madri che se non studi te frustano, altro che i ricorsi al TAR delle corrispettive italiane.
Seydou e Moussa sono i protagonisti del film di Garrone Io Capitano e ora li chiameremo Keita e Sissoko perché possiedono un bel guardaroba di magliette di calcio pezzotte – Barcellona, Borussia Dortmund, Real Madrid perfino la Juventus e una maglia del Belgio, numero 9 – e non fanno altro che guardare i video su Tok Tok e Instagram, spesso proprio con gli italiani protagonisti, noi sempre al ristorante per scattare foto al cibo, cantiamo e balliamo “Sono un italiano” e stiamo in spiaggia fino a ottobre con costumi che lasciano poco all’immaginazione. Sono più vestiti gli africani nel deserto che gli italiani in spiaggia in Puglia o in Sardegna.

Insomma Keita e Sissoko pensano al Bengodi europeo – e all’Italia in particolare – e decidono di partire di nascosto delle loro famiglie, attraversare il deserto con l’ingenuità con cui ai tempi miei il sabato sera qualcuno se ne usciva a cazzo con frasi tipo “andiamo a prendere il caffè a Napoli”. L’Africa è grande e il deserto uccide, ma ancor di più uccidono gli esseri umani. Keita e Sissoko si troveranno di fronte un’ingiustizia che è difficile comprendere, il male rappresentato dall’avidità, da altri uomini che non esitano a ridurre in schiavitù altri esseri umani e sporadici slanci di generosità e bontà che aprono il cuore, amici improvvisati che ti salvano la vita.
Nel mezzo visioni oniriche indotte dal dolore, le botte, la fame, la sete.
Il dolore, le torture, le difficoltà cambieranno i ragazzi e Seydou diventerà il leader della coppia, anche se all’inizio sembrava destinato a seguire il cugino.

Giunti in Libia, un Paese al confine tra l’impero galattico di Palpatine, quello nazista e un’ucronia senza fine con Meloni e Salvini al governo fino al 2235, Seydou e Moussa troveranno la strada attraverso il mare per l’Italia, tanto “basta andare sempre dritto”. Il nostro Seydou si fa carico del cugino ferito e della responsabilità di salvarlo, negli ospedali libici i neri “non li toccano” e allora meglio andare in Italia per avere l’ospedale, tanto come direbbe Belpietro, qui curiamo tutti. Seydou accetta di navigare lui la barca arrugginita, rotta sempre verso nord, attraverso il Mediterraneo e fino in Sicilia. Per convincerlo, gli scafisti insistono: basta andare sempre dritto e tanto sei minorenne non ti faranno nulla. Vaglielo a spiegare che ora con il nuovo decreto sicurezza del Governo cambierà tutto, con il prestigioso DASPO dalle località marinare per minorenni che costruiscono castelli di sabbia abusivi?
Così Seydou raccoglie la responsabilità non solo della vita del cugino ma anche delle centinaia di anime che affollano la barca. Il resto è l’armamentario che conosciamo di aiuti rifiutati, guardie costiere che non guardacostano, sete, dolore, donne incinte e svenimenti.
Ora. Il film non mi è piaciuto sebbene abbia dei momenti forti. Garrone sembra tutto puntato a raccontare cose che, bene o male e purtroppo, leggiamo sui giornali e vediamo nei servizi televisivi. Pure da Zoro. Da Formigli o raccontati da Cecilia Sala o Francesca Mannocchi. Ma l’analisi dov’è? L’approfondimento dov’è? Perché tutta sta gente vuole fuggire e perché tanta altra gente vuole schiavizzarla, spogliarla, derubarla, farla cagare in terra per rubargli i soldi dal buco del culo, rimestando nella merda mista a sabbia nella notte del deserto? Garrone sembra troppo convinto della potenza delle storie che racconta per ragionarci sopra, approfondirli e soprattutto fare cinema, senza sforzarsi nemmeno di trovare due nomi che non siano i soliti nomi da calciatori africani rapiti quindicenni dalle società di calcio italiane. Io Capitano è un documentario da approfondimento giornalistico televisivo, uno di quei film che accompagnano il racconto di fatti di cronaca con la voce di un Carlo Lucarelli per una drammatizzazione e per coinvolgere lo spettatore. Non c’è nient’altro. È un’opera poco eleborata.
Io sono sincero: a questo punto e date le premesse, io pensavo e speravo e credevo che Matteo Garrone sarebbe diventato qualcosa di “grosso”, un cineasta potente, che avrebbe segnato il suo tempo. Invece, ormai devo annotare che ha girato buoni film ed è senz’altro bravo a garantirsi budget importanti, realizzando così prodotti patinati che per forza di cose rendono bene sullo schermo. A volte penso che sia troppo la voglia per farsi dire bravo subito, senza andare nemmeno al cinema, per il tema affrontato – “ah ma davvero adatti quel racconto che non conosce nessuno?” – “Ah ma davvero un film coraggioso sui migranti in un’Italia sempre più all’estrema destra?” – piuttosto che ricordarsi che il cinema è altro.
** Ragazzi, state commettendo un grosso sbaglio.
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