A Complete Unknown, cronache da un fandom tossico
A Complete Unknown è il motivo per cui nei prossimi anni ci continueranno a propinare biopic musicali scontati, tutti uguali, pieni di roba scritta e girata solo per far contenti i fan, perché A Complete Unknown è il film più bello dell’anno e con una certa sicumera penso che manterrà il primato fino a marzo, quando le critiche a Biancaneve e i Sette Nani faranno dimenticare a tutti il senso e la voglia di vivere. Per cui, basandosi sull’idea che ci possa fregare qualcosa della vita di qualche rockstar, continueranno a produrre biopic musicali, dicendo “eh ma A Complete Unknown è bello”.

Vent’anni dopo Quando l’amore brucia l’anima, film biografico sulla vita di Johnny Cash, James Mangold dirige A Complete Unknown sull’ascesa di Bob Dylan e la svolta elettrica culminata nel contestato concerto del 1965 al Festival di Newport. Come spesso accade per i biopic in generale, l’arco limitato di tempo aiuta a non dover tenere tutti insieme una serie di fatti avvenuti a decine di anni di distanza, garantendo un’impossibile coerenza e omogeneità del racconto. Chi cazzo è coerente, del resto? Un cantante poi… metà del tempo ubriaco, l’altra metà fatto, nel mezzo scopa. Per quanto riguarda il film biografico musicale, Dylan consente di evitare le tappe banali della vita delle rock star: incontri sessuali disordinati, la droga, l’ispirazione che arriva da un paio di stivali sbattuti a terra e la grandi storie d’amore contrastate dalle 3 precedenti cose.

Siamo all’inizio degli anni Sessanta, un pugno di anni in cui si formò la coscienza politica e sociale dei giovani che volevano cambiare il mondo, mentre la politica prometteva molto con JFK e la reazione si organizzava ammazzando JFK.
Bob Dylan è un ragazzetto emaciato che fa l’autostop con una chitarra e un quadernetto dove appunta robe con la matita e sbaglia pure direzione quando decide di andare a trovare in ospedale il suo mito di adolescente, il cantante folk Woody Guthrie. Non se la passa bene Guthrie (Scoot McNairy), la malattia di Huntington lo sta svuotando, ma l’amico Pete Seeger (Edward Norton) lo va a trovare spesso ed è in ospedale che Dylan (il candidato all’Oscar Timothée Chalamet) incontra i due cantautori. Seeger e Guthrie sono perseguitati dalla macchina infamante del Maccartismo e sospettati di essere socialisti. Immaginate l’allegria quando Dylan decide di accompagnare con la chitarra le sue strofe per i due perseguitati dalla politica, uno dei due ha una patologia degenerativa e l’altro campa in una capanna in mezzo al bosco senza elettricità, senza gas, con un pozzo artesiano dove prendere l’acqua e una moglie gnocca che a causa del freddo nun cià mai voglia di fare roba. Ecco dove nascono le canzoni che parlano di cambiamento di Bob Dylan: dalla sfiga!
E forse non ci crederete, ma Bob Dylan è anche uno stronzo. Gli piacciono le donne e si mette subito a fare il filo a una maestrina impegnata politicamente che casualmente ha volto e altezza regale di Elle Fanning (il punto più basso del film, inespressiva, insipida, inutile), poi ci prova con Joan Baez, ma solo perché lei è figa, profumata e ha più successo di lui ed è interpretata da quell’altra bella donna di Monica Barbaro; soprattutto Dylan è fissato col successo, vuole vendere i dischi, una roba che non avrei mai detto vedendolo sul palco, inneggiando a chi può andare in giro senza un cazzo di niente, cantando quante strade ci vogliono per definirsi uomo, guardando le dodici montagne nebbiose, le sette foreste tristi e così via.
Come scritto, A Complete Unknown racconta l’ascesa di Dylan, la sua esplosione a fenomeno musicale e simbolo di un movimento fino a quando decide di mollare il folk, collegando la sua chitarra alla rete elettrica, malgrado il caro bollette, usare la batteria, lasciarsi accompagnare da un bassista e un altro chitarrista, un tizio simpatico conosciuto in un ascensore che gli ha detto una roba tipo “non sono un cavallo, non voglio portare il peso degli altri”, e decide che tutto questo non basta. Vuole suonare nel tempio della musica folk, il Festival di Newport, scatenando l’ira dei fan e degli organizzatori, tutti amici che lo conoscevano fin da quando non era nemmeno capace di beccare la direzione per andare in New Jersey.
Raccontare questa storia può sembrare – e forse è – esercizio di memoria buona per Veltroni e i suoi amici, una pietra miliare di generazioni ormai coi capelli bianchi, cantanti che manco avevano tatuaggi in faccia, pori sfigati, raccontando la potenza dell’idealismo che non muore mai in un tempo in cui abbiamo ancora bisogno di scoprire il potere rinfrancante dell’utopia, del credere di essere tutti uguali e che non contano i soldi, i telefonini, i tablet, lo schermo ottanta pollici, ma quello che hai dentro, cosa tieni nelle tue tasche e cosa hai scritto nel quadernetto. Parla a noi uomini e donne del XXI secolo perché oggi tutti cerchiamo riconoscimento, A Complete Unknown spiega che bisogna cercare il proprio pubblico, scoprire la propria nicchia, per quanto grande possa essere, ma che a volte bisogna andare contro chi ti ama, chi vuole etichettarti, chi vuole continuare a fare le cose come si sono sempre fatte, chi vuole continuare a vedere lo stesso Superman, lo stesso Batman, le stesse Star Wars, “uccidere il padre”, cambiare direzione per non morire di conformismo e finire a cantare mille volte sempre la stessa canzone finché non perde di significato. E nella nostra era di like, cuoricini, di fan service, questa storia era fondamentale che fosse raccontata. Per ricordarci che la nostra strada è solo nostra.
Ps: A un certo punto compare pure Johnny Cash, interpretato da Boyd Holbrook, facendo collassare l’universo cinematografico di Mangold.
***** A volte c’è così tanta bellezza nel mondo, che non riesco ad accettarla…
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