Ripley su Netflix: ce ne era bisogno?

Ripley è la serie tv Netflix, adattamento di Steven Zaillian del romanzo di Patricia Highsmith, Il talento di Mister Ripley, con Andrew Scott e Dakota Fanning. Il premio Oscar per la sceneggiatura di Schindler’s List non solo ha scritto ma ha anche diretto gli otto episodi.
Ripley è un thriller psicologico raccontato con la forma e i tempi di un noir chandleriano congelato nel tempo. Il tempo è il 1961, viaggiamo tra Roma-Atrani-Palermo-Venezia, ma si inizia a New York, dove facciamo la conoscenza con Tom Ripley, piccolo truffatore che sopravvive tra i topi del suo misero appartamento e campa di assegni falsi e documenti contraffatti.
Per Tom Ripley la svolta ha il volto di un ricco armatore, Herbert Greenleaf. Suo figlio, Dickie, è perso in Italia, non sembra avere intenzione di tornare. Te credo: Dickie passa le giornate sulla spiaggia di Atrani, ha una bella biondina al suo fianco e sperpera i soldi del fondo fiduciario. Greenleaf padre un po’ rosica e, credendolo un amico del figlio, spedisce Tom in Italia, tutto spesato, per convincere Dickie a tornare negli Stati Uniti a fare l’adulto.
Arrivato in Italia, Tom conosce Dickie con la sua ragazza, rampolli privilegiati di famiglie ricche, cresciuti tra cuscini profumati e vizi programmati, con l’illusione di essere artisti talentuosi in verità campano da vitelloni. Tom capisce presto che se li può mettere in tasca entrambi: li conosce, li frequenta, se accolla, assaggia la bella vita e decide di volerla tutta per sé.
Mette in atto il suo piano: rubare l’identità di Dickie e svuotare il suo fondo fiduciario.
Non conosco la materia originaria, ma rispetto al film di Minghella – il bel Il Talento di Mr. Ripley con Matt Damon, Jude Law, Gwyneth Paltrow e Rosario Fiorello (sic) – Zaillian opera un cambiamento: se Ripley/Damon uccide Dickie in un eccesso d’ira, Ripley/Scott programma la sua mossa e mette in atto il suo piano criminale: uccide Dickie e inizia un tour in Italia, tentando di far perdere le sue tracce, poi uccide l’amico sospettoso di Dickie, prima di riuscire a darsi alla macchia come un Tom Ripley qualunque.
Steven Zaillian è uno che ha scritto roba vera: Schindler’s List, Gangs of New York, The Irishman, L’Arte di Vincere, Risvegli, quel capolavoro di American Gangster, ma purtroppo anche Hannibal e Exodus – Dei ed eroi. Ha anche già curato la miniserie The Night of, un piccolo capolavoro.
Ripley di Zaillian è una serie tv che si prende il suo tempo, racconta meccanismi, suggestioni, ispirazioni: Ripley non ruba solo l’identità alla sua vittima, ma anche la sua passione per Caravaggio, subendo la fascinazione della sua vita turbolenta e violenta. Così tanta attenzione a sviluppare dettagli (ad esempio, l’attenta pulizia del sangue dopo un omicidio) e a lavorare su sottintesi e inquadrature piene di bellezza monumentale a volte mi ha ricordato le mie palle cadute guardando il Diabolik dei Manetti Bros: troppa attenzione Zaillian, troppo indugiare, anche se poi la confezione è perfetta, il bianco e nero riporta ai noir anni Quaranta, crea tensione, è quasi palpabile, possiamo sentite i vestiti bagnati addosso o la densità delle vestaglie di seta di Tom/Dickie e restituisce l’immagine di un’Italia ordinata, pulita, una dimensione onirica, popolata concierge di hotel bizzarri, portiere impiccione e nevrotiche (toh, è Margherita Buy), polizia troppo imbranata anche per essere italiana e commissari poliglotti e che storpiano la pronuncia delle vittime senza mai correggersi, tassisti romani talmente solerti di fare di Ripley una serie di fantascienza. Ho amato alcune sottigliezze ironiche come quando Ripley torna tre volte sul luogo del delitto operché aveva dimenticato qualcosa.

E se la scelta stilistica è quella di privare la serie di ritmo ed elaborare una suspence dalla atmosfere, dai silenzi fino ai compassati dialoghi dei personaggi e allungare il tutto per otto episodi, la sua natura di intreccio conosciuto (si tratta del terzo adattamento dal romanzo della Highsmith) lo priva del tutto dell’elemento thriller. Allora la domanda sorge spontanea: perché? Per parte mia mi sarebbe piaciuto Ripley ambientato ai giorni nostri, tra identità digitali, Spid e la difficoltà di cambiare il medico di base sul portale di Salute Lazio.
Confesso che non mi è andato giu quel “I’m not queer” che in bocca a Dickie negli anni Sessanta puzza tanto di filtro Netflix (tant’è che mi confermano che questa espressione non arriva dal materiale originario).
M’è piaciuto? Bo, quel che so è che gli inni al capolavoro sono fuori luogo mentre la domanda resta: ce ne era bisogno?

Io l’ho abbandonato dopo il terzo episodio, in cui mi sono addormentato a metà. Un film di 90 minuti con questo stile l’avrei retto, e forse anche apprezzato, ma sei ore così è masochismo…
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Ahahhahah. È stata tosta in effetti
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