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Ferrari: recensione del peggior film di Michael Mann

La puntata del podcast su Ferrari e Wonka

ferrari posterFerrari è un film di Michael Mann con Adam Driver, Penelope Cruz, Shailene Woodley e Patrick Dempsey, biopic del pilota e imprenditore Enzo Ferrari e adattamento della biografia “Enzo Ferrari: The Man and the Machine” scritta da Brock Yates.


Ironico ingaggiare un attore chiamato Driver (pilota in inglese) ad interpretare Enzo Ferrari, ex pilota e poi imprenditore automobilistico, uno dei più importanti della storia dei motori. Scrivendo la recensione è stato altrettanto divertente pensare al pubblico americano immerso nel melodrammone di Michael Mann su di un uomo perseguitato dai fantasmi delle persone amate e di coloro che gli erano indifferenti, morti condividendo la sua passione per velocità e automobili, mentre cerca di gestire due famiglie e nel frattempo tentare di vendere più macchine ai ricconi del pianeta, impegnandosi per vincere un’incomprensibile corsa di resistenza e durata lunga mille miglia attraverso lo Stivale italiano senza considerare che il suo pilota di punta è perso dietro il gradevole viso di un’attrice di Hollywood. Nell’assoluta assenza di una piantina che sintetizzi la geografia del tutto, tanto per renderlo più difficile da digerire.

Anno 1957, la Ferrari e il suo fondatore attraversano un momento difficile: dilaniato dalla morte del figlio, Enzo Ferrari affronta il possibile fallimento della sua casa automobilistica, ascolta le voci e rivive i ricordi degli amici piloti scomparsi correndo su una sua automobile, si dibatte dentro un matrimonio ormai finito con la donna in possesso del 50% della sua azienda, prigioniero di una vita a metà con l’altra famiglia composta dalla compagna Lina Lardi e il figlio Piero, con doppie prestazioni sessuali – ah quanto fanno bene i salumi emiliani e la pasta all’uovo così energetica -. Intanto deve mettere insieme il team per affrontare la sfiancante Mille Miglia.

Adam Driver è vagamente magnetico nell’interpretare Ferrari, Penelope Cruz obiettivamente ha due scene magistrali – il dialogo con la fredda lapide del figlio morto, tutto giocato con gli occhi e solo il volto in primo piano è un pezzo di bravura. Il resto è tutto lirica, pasta fatta in casa, vino, salumi, preti e comunione, il peggio della retorica sull’Italia, quella che piace agli americani, quella delle donne vestite di nero coi fazzoletti anch’essi neri in testa. In più, le corse non sono affascianti nè vagamente tese, i duelli a tutta velocità senza pathos, ripresi cercando solo di stare più vicino all’automobile per giustificarne il volume spropositato del rombo del motore, attentato alla salute dell’udito degli spettatori. Un paio di montaggi alternati – guarda un po’ con i personaggi al teatro dell’opera e in chiesa, siamo italiani del resto – dialetticamente affascinanti, ma in fondo sterili. Michael Mann, dove sei?

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Ferrari è la storia trita e ritrita di corna, figli illegittimi, matrimoni falliti trascinati avanti per convenienza, raccontato con stile, eleganza e oscura disinvoltura da un Mann purtroppo lontano dalla forza epica di altri suoi lavori, divorato dai fantasmi dei suoi sicari metropolitani, i suoi impavidi eroi trafitti dal dolore e logorati dalla forza dei tempi. Qui non c’è l’Italia del boom economico, non c’è un rapporto emotivo e ideale con i Mastroianni dolenti di Fellini, abitanti di quella stessa epoca ed epica.

È un peccato e anche un’occasione persa: l’idea dell’uomo solo, benché conteso tra due donne, e costretto a costruire un muro attorno a sè per proteggersi dal dolore della perdita del figlio, degli amici, della gioventù che non c’è più, poteva essere raccontato con più profondità. Poi insomma, non sembra nemmeno tanto dolente ‘sto Ferrari sempre di corsa, sempre appresso alle gonnelle, auto indulgente perché “c’è la guerra ti ho tradito”, “hanno bombardato la fabbrica, ho scopato con una”, “ho perso una corsa, la mia amante è incinta”, le “cavallette”…

Doppiaggio originale francamente snervante con parole italiane buttate dentro per dare un vago senso di esoticità – “mamma” perché siamo italiani e mammoni, “commendatore” perché così il Drake era conosciuto (il soprannome ben più affascinante, ispirato a un pirata, avrebbe allungato un’ombra oscura sul personaggio?), e poi i “signora”, buonasera”, le solite parole che un americano medio impara in una vacanza media in Italia o dopo aver guardato un film neorealista.

Per tutto il film ho pensato al destino cinico e baro di non avere a disposizione degli attori e delle attrici italiane al livello di una megaproduzione hollivudiana, capaci di sostenere sulle loro spalle il fardello, anche mediatico, di un progetto così importante.

Colonna sonora per lo più latitante per dare spazio ai succitati motori spacca orecchie, così che in un paio di scene mi è sembrato di sentire le note funebri de Il Gladiatore e mi immaginavo i piloti morti che camminavano nei campi elisi accarezzando le spighe di grano. Comunque il Driver-Ferrari è ancora maschio e in una scena prende la moglie Laura-Penelope sul tavolaccio della cucina, mentre un minuto prima aveva giurato amore e fedeltà all’amante, specificando quando sia lontano dall’amare la moglie. Ah gli uomini italiani.

Rispetto a Wonka, all’anteprima meglio la presenza in sala di attori, attrici e comparse piuttosto che quella degli influencer con i disegnini in faccia.

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