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Visioni successive – Questo articolo conta 7694 battute, scusate ma non è colpa mia (e non è nemmeno divertente)

antichNon lo faccio quasi mai ma Antichrist ha bisogno di un po’ d’ordine per essere commentato, forse perchè, anche adesso che mi sono messo di fronte al computer, non ho ancora deciso cosa ne penso.
Una coppia, evidentemente benestante, ben educata, una di quelle coppie che probabilmente la sera va ad ascoltare Mahler o al teatro, una coppia che farebbe la felicità di Woody Allen, una coppia Upper Upper Class, insomma… una coppia… perde tragicamente il figlio: mentre copulano furiosamente in quasi ogni angolo della casa il bimbo si sveglia, monta su un tavolo e si getta dalla finestra.
Una tragedia che sconvolge le esistenze dei due. Il marito, psicoterapeuta, affronta il dolore con piglio professionale e cerca di usare le sue terapie per lenire le ferite della moglie. Lei, antropologa, sta scrivendo una tesi sulla stregoneria. Il primo indaga l’inconscio dell’Uomo e cerca di mettere in atto delle tecniche per curarlo, la seconda studia come l’Uomo sviluppa relazioni e organizzazioni sociali, guardando però alla religione, il rituale, il sovrannaturale. Entrambi lavorano con istinti e pulsioni: il primo vuole domarli, la seconda comprenderli. In questo percorso lei rimane invischiata nel male che ha cercato di studiare; di lei sappiamo che ha trascorso un’estate con il figlioletto in un bosco, chiamato Eden, per finire la sua tesi di laurea sulla stregoneria. Un posto che scopriremo in seguito abitato da “presenze” ambigue e maligne, dalla cui terra spuntano dei corvi e dove sembrano dimorare proprio le anime delle donne torturate e condannate al rogo.
La donna non riesce ad uscire dal dolore né con i farmaci né con le cure del marito, il quale decide di portarla di nuovo ad Eden per riuscire, grazie all’isolamento, a curarla facendo affidamento sulle sue tecniche, gli esercizi ed i suoi “trucchi” da strizzacervelli. Fin dal nome dato al bosco, l’elemento simbolico è molto forte: una natura selvaggia e assoluta, che isola da tutto e da tutti, con uno strano influsso ed in cui cadono tutte le barriere sociali che separano i due sessi. Marito e moglie diventano una sorta di Adamo ed Eva, quasi due archetipi dell’umanità.
La terapia non procede bene. La donna peggiora progressivamente, esce completamente di testa, tortura e sevizia l’uomo. La cura diventa una lotta per la sopravvivenza ed è l’uomo ad averla vinta, a bruciare il corpo della moglie. Il rogo libera le anime che si nascondono nel bosco e che, forse, hanno fatto impazzire la donna.
 
Quello che ho letto in giro (giuro non lo faccio mai “prima” ma sempre dopo aver scritto il mio post) è una serie di commenti “impressionisti” ed impressionati. Una serie di “ma che bello, mi ha preso all’anima”. Poi, c’è anche una lunga sequenza di competenti e appropriate riflessioni, molto stimolanti e che mi hanno arricchito anche solo leggendole anche se non ho capito proprio tutto quello che si è detto, come quella che potete trovare su Cineroom, veramente eccellente.
Ho sempre sostenuto che meditare sul cinema del danese sia esercizio superfluo: la magia di Von Trier deve fluire attraverso altri orifizi, che non siano non solo e non soltanto i nostri occhi e orecchie ma che sia necessaria lasciar entrare in noi le emozioni per osmosi con le immagini, un libero fluire di percezioni. Convinto che il cervello sia l’organo umano più sopravvalutato, Von Trier mi ha sempre preso allo stomaco, mi ha inchiodato l’anima, spesso mi ha rivoltato con un calzino, altre mi ha sconvolto.
Stavolta, sono sincero, la cosa è andata diversamente, e ho riflettuto tre giorni.
 
Penso anche che il vero progresso è tale quando lo è per tutti e non credo sia bello trascorrere 4 giorni in biblioteca per capire un film.
 
Le scene sono incredibili: c’è una sorta di disperata disperazione nel riflettere sulla natura umana, un pessimismo cosmico, non leopardiano ma nero, un cupo mare oscuro in cui il male si infila dappertutto, da dietro di noi, sopra di noi, di fianco ma soprattutto da dentro, una sorta di possessione onirica che ci induce a fare cose di cui non abbiamo completa percezione.
Detto tutto questo, la sensazione che non riesco a togliermi di dosso, oltre la cecagna ed il bisogno di caffè rimasto immutato dopo tre giorni – perchè, diciamolo, il film è un po’ una mattonata sulle palle (ahahah, è satira politica, ma questa non è mia, è di Angelo) – è che Von Trier abbia volutamente cambiato angolo e obiettivo, costringendoci a riflettere sul simbolismo e ad usare la ragione per esplorare il cuore nero dell’Uomo, infarcendo il tutto con tanta psicanalisi e satanismo. Fin dalla riflessione che suscita il titolo, quell’Anticristo che non può non porci di fronte all’esigenza di capire chi sia l’Anticristo. I più – in primis Francesca – evidenziano il ribaltamento del percorso del dolore e della perdita: c’è il dolore (primo capitolo), la pena (il caos regna), la persecuzione delle donne e i tre mendicanti, i richiami al satanismo. Non c’è la pace che l’accettazione cristiana della morte procura. Questo mi porta empaticamente a cercare un legame con un tema che sto sentendo molto nell’ultimo periodo, che potrei sintetizzare nella domanda: cosa accade in un mondo senza Dio? In Antichrist Dio non c’è e possiamo dare uno sguardo nel nero dell’assenza di speranza e redenzione oppure, come piace dire a me, alla realtà dell’esistenza senza consolatori voli nell’universo della fede. Il mondo diventa terra di conquista delle forze della ragione (lo psicoterapeuta???) e le armate della natura selvaggia (benevola o maligna? Natura che dà la vita, come la donna) e la lotta termina nel rogo finale che libera le anime dannate.
 
Secondo me, in questo gioco, Dogville era molto più Antichrist: Grace è Cristo, porta su di sé i peccati di una piccola comunità, porge l’altra guancia, accetta e assolve (senza porsi il problema della comprensione, ma aprioristicamente, come se fossero figli a cui perdonare tutto). Poi, quando sulla “croce” è di fronte al padre (nella macchina, recuperata dal boss della mala suo genitore) messa di fronte alla scelta non perdona ma uccide, stermina Dogville, un olocausto. Grace è Antichrist. In Antichrist non c’è Dio, non ci può essere nemmeno il suo antagonista.
 
I boschi di Eden risvegliano un male atavico su cui sto ragionando ma su di cui infondo non c’è poi tanto da ragionare. Von Trier usa tutte le armi a sua disposizione, va dove pochi registi prima di lui sono voluti andare, indugia nelle copule e nelle sevizie a quegli stessi organi sessuali che prima ci ha mostrato ma non è la violenza fisica a colpire, ma la riflessione sulla tristezza della condizione umana che gli anni della depressione di Von Trier (un convitato di pietra in qualsiasi valutazione del film che si voglia fare o suggerire) hanno tolto dallo stomaco e portato a livello cerebrale. Francamente non mi sconvolge di vedere un pisello sullo schermo, un membro maschile che spruzza sangue, una evirazione o quello che ho visto. Cosa si voleva dimostrare? Di poterlo e di volerlo fare? Del resto, in un universo senza Dio se posso uccidere senza temere condanne, posso anche mostrare il pisello di Dafoe al cinema.
 
Il film apre e chiude su Lascia che io pianga, in un lento scorrere di fotogrammi, indicando che tutto quello che sta nel mezzo è un’amara riflessione fatta per immagini sulla nostra condizione. Sarebbe bello immaginare che Antichrist sia una parte di un progetto, come Dogville lo è della trilogia (?) sull’America, questo potrebbe essere il primo capitolo di una indagine sul dolore. Perchè mentre cerco la risposta alla domanda sul nostro destino di Uomini in un universo senza Dio, vorrei capire cosa fare del dolore, senza dover andare a bruciare un bosco.
 
3 buono***
È stata la cosa più divertente che ho fatto senza ridere

5 pensieri riguardo “Visioni successive – Questo articolo conta 7694 battute, scusate ma non è colpa mia (e non è nemmeno divertente) Lascia un commento

  1. Lunghissima digressione, d’altra parte il film non consentiva esposizioni sintetiche. credo tu abbia già letto quello che ho scritto io sul film, quindi sai bene che sono d’accordo con te a metà. A mio parere il film di Von Trier è – pur sempre migliore di Dogville! – come il vino buono: si assaporerà col tempo. Avrà bisogno di essere decantato per qualche anno prima di coglierne il vero sapore. A caldo, dal mio punto di vista, trasuda genialità!

    Mario

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  2. @Mario: grazie del tuo commento innanzitutto. io sono convinto, molto umilmente, che invece questo film sarà valutato al ribasso. Ma probabilmente mi sbaglio…
    Chi vivrà vedrà 🙂
    cmq, i post che ho letto erano tutti molto belli. Poi ripeto quello che ho citato dovrebbero leggerlo all’università, commenti compresi

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  3. Intanto complimenti per ciò che hai scritto. Tra le cose che ho letto qui fino ad ora è una delle migliori recensioni. E credo di trovarmi abbastanza d’accordo con te sulla valutazione del film, anche se, lo ammetto, i momenti “splatter” del film mi hanno piuttosto impressionato eh. Sta di fatti che ribadisco una cosa: questo film è assolutamente da vedere. Come premio per il coraggio di Von Trier.

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  4. @aldirektor: grazie dei complimenti, sono particolarmente graditi. piuttosto però il dibattito tra te e chimy è stato interessante.
    piuttosto i momenti splatter non mi hanno impressionato, forse ad eccezione delle cose che vengono fatte agli organi genitali, soprattutto di lui, per evidenti motivi… come dire… empatici?

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  5. Ah addirittura ho detto qualcosa di interessante nel commento al post di Chimy?
    Riguardo al film di Von Trier…direi che definire lo sconcerto “per evidenti motivi empatici” sia la cosa più azzeccata 😉
    Ma personalmente mi sono impressionato più nei momenti “al femminile”, pensa te.

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