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Prima visione – Ho sempre pensato che Edgar fosse un nome da gay

C’è una cosa che non può essere taciuta dell’ultima fatica di Clint Eastwood, J. Edgar, biopic su J. Edgar Hoover, fondatore nonché direttore per 48 anni dell’Fbi: è l’ennesima consistente prova attoriale di Leonardo DiCaprio. Tutto il film poggia sulla magnetica interpretazione dell’attore nel ruolo del titolo e probabilmente è il più importante se non unico motivo per cui chiunque possa scegliere deliberatamente di sottoporsi a due ore e passa di storia contemporanea degli Stati Uniti d’America. Il film prende in esame un arco temporale che va dagli anni Venti fino al 1972, anno della morte di Hoover, esibendone la formazione ideologica, umana e professionale. Ci è restituito il ritratto di un uomo politicamente e socialmente gretto, un disadattato, moderatamente ottuso, che giudicava i collaboratori dai baffi o dalla cravatta ma scaltro, furbo e attento a tutti i vantaggi che potessero essere offerti dalla tecnica, che fosse una scoperta di laboratorio o lo sfruttamento delle possibilità mediatiche dei mezzi di comunicazione. Dai fumetti alla radio, dall’indagine scientifica fino alle pressioni più o meno lecite per piegare gli oppositori al suo volere, Hoover ha creato l’agenzia governativa più potente (e che da decenni alimenta la fantasia cinematografica di Hollywood e anche in questo caso non senza un’influenza diretta o indiretta) praticamente dal nulla: senza leggi, senza giurisdizione e senza armi. Ne ha impostato le regole, sul decoro degli agenti ad esempio, formato lo spirito e, probabilmente, messo a disposizione del proprio sistema di potere un costante dossieraggio fatto di intercettazioni compromettenti.
Lentamente J. Edgar, dal film su un ragazzo disturbato che vive con la mamma, che porta la sua prima ragazza a vedere il sistema di archiviazione dei libri della biblioteca del Congresso da lui ideato (in uno degli appuntamenti più bizzarri della storia del cinema), diventa una pellicola sul potere che corrompe, un ritratto di Dorian Gray che ha preteso il sacrificio di tutto pur di perpetrare il proprio influsso fino a diventare Hoover stesso il ritratto frutto del patto col diavolo. Due le figure che si stagliano di profilo, allungando le proprie ombre sul protagonista: la madre di Hoover, possessiva e mezza pazza, e l’amico e collaboratore Clyde Tolson: tra i due nasce un’amicizia che sfocerà, o almeno a Eastwood piace ammiccare, in una relazione omosessuale. Di tutt’altro tipo il rapporto con Helen Gandy, la fedele segretaria che, dopo averne rifiutato la proposta di matrimonio ne sposa gli obiettivi: creare un’agenzia che protegga gli americani.

Nel raccontare ciò Eastwood e lo sceneggiatore Dustin Lance Black (quello di Milk) scelgono il caro vecchio espediente del libro di memorie, un autentico colpo di genio che avrò visto un centinaio di volte in un biopic; peró, allo stesso tempo, il punto di vista è assolutamente dentro il personaggio, con le sue paranoie e pulsioni. Girando completamente intorno al personaggio del titolo, DiCaprio è fondamentale: col suo carisma tiene in piedi tutto il film, le vicende del suo personaggio e, di riflesso, quelle degli Usa: passiamo dalla lotta al bolscevismo a quella alla grande criminalità, dal rapimento del figlio di Lindbergh ai pedinamenti dei leader di movimenti come le Pantere Nere o di Martin Luther King fino ai presidenti che occasionalmente e accidentalmente entrano nel campo di azione delle orecchie del Federal Bureau of Investigation.

Questi ultimi si alternano (ne avrà contati otto prima di morire) e Hoover li saluta dal suo balcone a schiena dritta contando solo su se stesso e sulle uniche due persone di cui si fida – dopo sua madre: Helen e Clyde. Con quest’ultimo trascorre anche gran parte del tempo libero, pranzi, cene, vacanze. Black e Eastwood si spingono a tratteggiare un rapporto emotivo di reciproca dipendenza, senza addentrarsi nel labirinto di un rapporto sessuale. Omosessuale o no, la stanza in cui trovano Hoover a terra, morente, è talmente piena di simboli fallici che lascia pochi dubbi…. chissà che profilo psicologico ne avrebbe fatto Clarice Starling.

***½ Non hai mai sentito nominare il Millenium Falcon?

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